Questo articolo, firmato da Donatella Trotta e dedicato alla Grammatica dell’integrazione di Vinicio Ongini, è stato pubblicato nel n. 366 di Andersen (ottobre 2019). Sostieni la rivista Andersen con un abbonamento annuale!
La scuola? È il più «grande laboratorio nazionale» per sperimentare “prove tecniche” di cittadinanza glocale, comunità, convivenza. Ma è anche la più ampia – e problematica – palestra dove allenarsi a fare, precocemente, “esercizi di mondo”. Purché si affronti la sfida della complessità attrezzati di una rodariana fantasia la cui grammatica può generare visioni ed eutopie: poiché, per parafrasare Edgar Morin, «la rinuncia al migliore dei mondi non è la rinuncia ad un mondo migliore»…
Ne è convinto Vinicio Ongini, punto di riferimento per il Miur – dove ha lavorato all’Ufficio integrazione alunni stranieri e ora lavora come esperto presso la Direzione generale per lo studente – non a caso tra i massimi specialisti di intercultura, dopo oltre vent’anni di docenza “militante” nelle aule. E proprio nei giorni di riapertura del nuovo anno scolastico, Ongini lo dimostra con il suo nuovo libro: Grammatica dell’integrazione. Italiani e stranieri a scuola insieme.
Il volume è un prezioso contributo sull’annosa e controversa “questione immigrazione” che dopo la precedente inchiesta di Ongini (Noi domani. Un viaggio nella scuola multiculturale, Laterza 2011) giunge quanto mai opportuno. Perché racconta – con dovizia di dati e rigore di analisi, ma anche godibile cifra stilistica narrativa, ricchi rinvii bibliografici e storie concrete di un’Italia spesso invisibile declinata al plurale – una variegata e spesso misconosciuta realtà. Ma in chiave educativa. E culturale: che Ongini, attivo nell’Osservatorio nazionale per l’integrazione e l’educazione interculturale, coordinatore del Gruppo di lavoro sulle scuole nelle periferie urbane multiculturali e autore di saggi come Lo scaffale multiculturale, Mondadori 1999, o Una classe a colori. Manuale per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri, Vallardi 2009 (con Claudia Nosengo), oltre che di libri per bambini (tra cui Le altre Cenerentole: Il giro del mondo in 80 scarpe con Chiara Carrer, Sinnos 2011) ha scelto scansando facili stereotipi che accompagnano l’ormai abusata, ma spesso disattesa, parola “intercultura” in contrapposizioni tra respingimenti e accoglienza, ponti e muri, vecchie e nuove paure.
Il titolo è un omaggio alla Grammatica della fantasia di Gianni Rodari: Perché? «Ho voluto richiamare – spiega l’autore – alla necessità di introdurre l’immaginazione creatrice nella discussione sulla scuola, e sull’integrazione tra diversi. Non si può restare schiacciati su logiche emergenziali. Ciò che mi sembra manchi nell’attuale dibattito, educativo e politico, è proprio coltivare visioni del futuro: necessarie alla realizzazione di utopie concrete. Perché il grande compito della scuola è valorizzare il “principio speranza” di Ernst Bloch senza cui si smette di provare a costruire il mondo come dovrebbe essere». Un proverbio eritreo citato dalla scrittrice Ribka Sibhatu dice: più conosci il passato, più capisci il presente, più progetti il futuro. Per Ongini, «è quanto avviene di fatto in molti luoghi d’Italia, dai piccoli comuni alle grandi città, dai centri alle periferie, dove l’integrazione avviene da anni attraverso una rete pressoché invisibile di “non eventi” (secondo la studiosa canadese Lori Beaman), basati sulla conoscenza e interazione con l’altro, sull’esplorazione del registro emotivo, sulla costruzione di legami sociali e di comunità».
Qualche esempio concreto? L’esperienza delle “Lettrici itineranti”, studentesse straniere di origine araba che leggono ad alta voce i libri di Pavese in un Centro anziani delle Langhe: «Dove il vero straniero – precisa Ongini – è la solitudine, non certo il velo che alcune di queste ragazze indossano e a cui nessuno fa caso. A prevalere non è il segno della loro “diversità”, ma il valore del loro dono di condivisione».
A proposito di veli, turbanti, cappelli e kippah: dal profondo Nord al Sud, si pensi anche ad una ricerca con cui alcune classi del Salernitano hanno ricostruito la simbologia dei copricapi nella storia, a partire da casi di cronaca: «Un viaggio – dice Ongini – che ha messo a fuoco ciò che ci accomuna, più che ciò che ci divide, come suggerisce l’antropologo Francesco Remotti nel suo libro Somiglianze. Una via per la convivenza». Via che ad Ancona si è trasformata nel bel progetto «Su(l)la testa»: dove donne vittime di tratta, con l’Auser e Associazioni culturali cittadine, hanno creato una fattoria sociale per produrre turbanti colorati per le pazienti in cura oncologica. Solo due tra i tanti esempi descritti nel libro, che costruiscono ponti e aprono porte di conoscenza: buone pratiche da contrapporre ai “muri” più o meno simbolici e alle polemiche sui porti chiusi, aperti.
Di recente Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace, è tornato nel suo paese – modello di accoglienza – dopo 14 giorni ai domiciliari e 11 mesi di esilio. Ma intanto Sevmi Tharuka Fernando – splendida ventenne nata a Padova da genitori immigrati cingalesi, finalista a Miss Italia 2019 – è stata invece presa di mira dagli odiatori seriali dei social perché “non rappresenta i canoni della bellezza italiana”: Ongini, due facce dello stesso clima di intolleranza che avvelena il Paese? «Certo. I due aspetti sono l’esito di un tempo di passioni tristi, di una sbandierata “emergenza migranti” e di slogan come “prima gli italiani”: testimoniano una resistenza quotidiana che dimostra quanto ci sia bisogno, oggi, di una grammatica dell’integrazione che insegni a costruire il (buon) senso del possibile, superando senza però mai minimizzarle le paure di una popolazione divisa tra quella che ho definito la “fifa bianca” (di genitori preoccupati della convivenza dei figli in scuole con “troppi” stranieri), rispetto alla fifa nera, fifa blu raccontata da un albo illustrato per bambini: dove si narra la nostra paura nei confronti degli sbarchi, accanto al terrore vissuto dai migranti, anche nei nostri confronti. Come sempre, è questione di punti di vista: o, come dice David Grossman, di guardare con gli occhi del nemico».
Intanto, da Nord a Sud d’Italia, le classi sono sempre più “a colori”. Da almeno trent’anni: quando, nell’anno scolastico 1989/90, sui banchi sedevano circa 18mia “bambini dell’altrove” stranieri, figli di immigrati. Mentre oggi, ci ricorda Ongini, gli alunni di 3-18 anni con cittadinanza non italiana sono circa 850mila: il 10% dell’intera popolazione scolastica. L’85% di questi piccoli in età da scuola dell’infanzia è nato in Italia, da genitori figli di immigrati (la media per le altre fasce d’età è del 63%): ciò significa che in quasi 600 scuole italiane, soprattutto del centro-nord, la percentuale di alunni “stranieri” è del 50%: «Perché continuiamo a chiamarli stranieri?», si chiede Ongini. Ma l’integrazione, con la cittadinanza, «inizia da piccoli, superando le diseguaglianze e ammettendo che la multiculturalità, nella scuola, è una grande ricchezza: siamo tutti diversi, ma qualcuno (i bimbi dei campi Rom e Sinti) lo è “di più”, tanto che un documento ministeriale del 2015 recita: Diversi da chi? E il banco di prova dell’integrazione passa allora per la pedagogia dei personaggi-ponte, l’etica della parola dietro ogni “albero genealogico” linguistico, veicoli di aggregazione come il gioco, lo sport, la musica, il cibo e – soprattutto – le storie». Che possono rivelare sorprese, da cui imparare: i bambini stranieri sono molto più bravi dei loro coetanei italiani nelle competenze plurilinguistiche (ma il dibattito mediatico sui “disastrosi” dati dell’ultimo Rapporto Invalsi non ne ha parlato). Alcuni gruppi di immigrazione, poi, hanno un impegno e un’aspettativa verso l’istruzione che famiglie e studenti italiani di una scuola in crisi di autorevolezza non hanno più: «Un chiaro segnale, da parte degli “stranieri”, di motivazione allo studio, di sogno e fiducia nel futuro che rimette al centro il valore (screditato) della formazione».
Ma se Ongini fosse ministro della Pubblica Istruzione, da cosa partirebbe? «Coltiverei di più la fantasia, magari con lezioni di turbante come nel laboratorio di sartoria sociale di Ancona; potenzierei il senso dell’umorismo nell’accezione di Amos Oz in Contro il fanatismo, come antidoto ai fanatici. E userei di più una preposizione semplice: “con”, anziché “per”. Perché l’integrazione si fa insieme».