[Qualche settimana fa, mentre stavamo lavorando alla chiusura del numero di ottobre (n. 366) di «Andersen», abbiamo appreso della scomparsa di Lino Gosio, un amico e, a lungo, un collaboratore della nostra rivista con circostanziati articoli sulla scuola e sull’educazione. Lino Gosio (21 settembre 1920 – 21 settembre 2019), lo ha ricordato Barbara Schiaffino nell’editoriale del numero ottobrino, è stato: “maestro elementare, presto passato a ruoli direttivi e ispettivi, e storico contributore di «Andersen» con la sua apprezzata rubrica “Il Vecchio Maestro”, uscita fino a non molti anni fa e parzialmente da noi riunita nel volume Un maestro. Abbecedario pedagogico per chi educa a scuola e in famiglia (2004). Gosio – classe 1920, la stessa leva di Gianni Rodari – è mancato il giorno del suo 99° compleanno; lo ricordiamo con affetto e commozione: era un galantuomo d’altri tempi, appassionato e veemente quanto preciso e garbato, che preferiva, già in epoca di mail e wordprocessor, consegnare di persona i propri articoli, battuti a macchina e appuntati a penna, per non far mancare un saluto alla redazione.”
Qualche anno fa – proprio in uno degli ultimi passaggi in redazione, prima di diradare le uscite da casa – consegnando i fogli dattiloscritti della serie conclusiva della sua rubrica portò una busta con su scritto FINE CORSA, ci disse essere l’ultimo saluto alla scuola, scritto mentre sentiva volgere al termine i propri giorni, lo consegnava perché lo pubblicassimo quando sarebbe stata l’ora. Ci scherzammo, dicendo che ci sarebbe stato tempo. E tempo c’è stato, diversi anni: è stato un tempo sereno, di riposo e di affetti familiari, lontano dalle attività. Ora che quel tempo è passato, abbiamo aperto la busta e vogliamo condividere con voi questo ultimo saluto di Lino Gosio. Sit tibi terra levis.]
Il Vecchio Maestro è ormai “giunto sul passo estremo della più estrema età”. Ha perduto per vie diverse tutti gli amici dei suoi bei tempi scolastici. Percorre con la mente i quartieri che lo hanno visto interprete della sua avventura pedagogica e che sono ormai ridotti per lui a un melanconico parco della rimembranza.
Abbiamo raccolto le ultime testimonianze di un passato che per lui è oggi più presente del presente. Si tratta più che altro di ricordi minuti e frammentari che tuttavia possono, spesso assai meglio dei grandi eventi, caratterizzare un tempo e una vita.
Seguiamolo dunque, un’ultima volta, nei suoi “esuli pensieri”.
Egli visita innanzi tutto col ricordo l’istituto magistrale della sua spensierata giovinezza e vi trova la lapide coi nomi dei compagni caduti in guerra. Li ravvisa tutti al loro posto nel banco ma ci parla di uno solo: una figura mite e gentile di cui si diceva che “biondo era e bello e di gentile aspetto”. Fu impiccato dai tedeschi e buttato in una fossa con un secchio di calce. Quanti posti vuoti e quanti “assenti” in quell’aula! Ma ricorda anche cose meno forti. Rivede scialbe e luminose figure di insegnanti. Pensa al più valente di tutti che, allontanato dalla scuola per le leggi razziali, approdò a una università americana dove acquistò prestigio internazionale. Ricorda anche figure vittime della giovanile malvagità degli studenti. Viene fuori così la storia di quel professore che soffriva di allergie a cui soffiavano polverine raccolte tra le pagine squadernate della Divina commedia. Il poveretto si contorceva negli starnuti e interrompeva l’interrogazione cogli occhi stralunati e le guance paonazze. E poi il docente di filosofia detto Socrate. Gli avevano messo dei cilindretti sotto la predella. Egli saliva in cattedra e navigava alla ricerca della verità dondolandosi con beccheggi e rullii.
Rinnova ben presto con la memoria il suo primo accesso alla scuola: scuola di poveri come poveri erano i tempi e il quartiere. E pensa alla sua prima scolaresca che, prima di lui, aveva messo in fuga tutta una serie di supplenti. La conquistò, il primo giorno, facendo insieme con i ragazzi il giro del mondo sulla carta geografica. E poi fu tutto un bel viaggio insieme.
Dei colleghi insegnanti di quei giorni lontani alcuni portavano le mezzemaniche per proteggere la giacca; altri indossavano la cappa per nascondere l’abito. Ci parla solo di quelli più pittoreschi e più strani. Ricorda il maestro artista che disegnava e suonava il piano incantando tutti a scapito della grammatica e dell’aritmetica. Ricorda anche alcuni colleghi con i quali aveva aperto il difficile discorso sulle “cose sbagliate che si insegnano a scuola”. Rivive così il contrasto con la maestra che diceva che “anima” è un astratto dimenticando che in grammatica si fa l’analisi del nome e non della sostanza e confondendo l’astrazione con l’immaterialità. Ricorda con tristezza il collega che, allontanato dal servizio per sopravvenuta inabilità si appostava per vedere non visto i suoi bambini che andavano a scuola fino a quando quest’ultima sbarrava il portone chiudendo dentro di sé la sua anima canora. Rievoca poi col ricordo anche la figura del maestro “epurato” nell’immediato dopoguerra per aver troppo creduto nel Duce e lo rivede quando se ne va col fagottello delle sue cose tra i bambini che lo guardano straniti. Rivede anche, con un sorriso, il vecchio collega che si portava a scuola una fiaschetta con un cordiale che lo faceva precipitare nel sonno durante i compiti in classe.
A questo punto il discorso si porta sulla variegata schiera dei bambini. Più che i diligenti, e i buoni (che spesso finiscono coll’essere meno interessanti) il Vecchio Maestro ricorda i più birichini: quelli, tanto per dire, che mettevano la marmellata tra le pagine del registro di classe, le lucertole nel cassetto della cattedra, la segatura nei calamai… Per lo stesso motivo ricorda i meno fortunati: quello che la mamma portava ogni giorno in braccio perché malato di cuore; quello sfigurato da un handicap che lo rendeva simile a una orrenda caricatura del padre; quello che, in vista di una cena insicura, aveva la tasca del grembiulino trasudante untumi per avervi raccolto un pugnello di refezione; quello che diceva che suo padre era sempre “fuori” per lavoro mentre era sempre “dentro” per dissapori con la giustizia; quello che scriveva di sé “Io sono brutto perché ho la testa grossa” ed era vero; quello che, col suo fratello gemello, aveva un unico paio di scarpe buone e arrivava a scuola quello che era riuscito ad arraffarle per primo; quello che, nell’immediato dopoguerra ostentava benessere perché – si diceva – la sua mamma “si faceva ogni giorno cento lire di Americani”; quello che, nel buio del cinematografo, aveva incontrato uno che gli aveva detto “delle cose brutte”; quello la cui mamma si era presentata dicendo “Io non sono una donna per bene… per questo le raccomando mio figlio!”; quello che non riusciva a consolare la sorella a cui avevano tagliato una magnifica treccia rossa per venderla a un parruccaio; quello che vendeva sigarette di contrabbando e eccelleva nel calcolo mentale; quello che, nottetempo, pescava le monete che i turisti gettavano nella fontana della sua città e ne usciva grondante ma con le tasche tintinnanti; quello che si disperava per aver perduto una moneta e il maestro l’aveva “ritrovata” pensando che ridare il sorriso a un bambino disperato valeva bene una lira. Ricorda anche con un sorriso quello che, venuto a contratto con i poligoni regolari, pensava che la sua mamma avesse l’apotema in bocca confondendola con una postema che le infiammava la gengiva; quello che, al suo primo incontro con la storia, era convinto che al tempo degli “uomini primitivi” non ci fossero anche le donne; quello che, nell’inno a Mazzini, invece di “e un popol morto dietro a lui si mise” cantava “e un topo morto…”. Ricorda infine con tanta tristezza quello che, più tardi, (proprio lui!) era finito in galera…
Il Vecchio Maestro ora rivive nella memoria alcune feste di fine d’anno nel teatrino della scuola in cui succedeva un po’ di tutto. Come nel caso di quella bambina tutta vestita e velata d’azzurro che doveva irrompere sulla scena con una sfolgorante battuta: “Io son la fata da tutti amata, son la bontà”. Ma inciampò e finì invischiata in una nebbia di veli. In sala si rideva ma lei, sotto i veli, piangeva.
Anche a proposito dei superiori il Vecchio Maestro sorvola sui virtuosi del governo scolastico e ricorda di aver conosciuto purtroppo anche degli ispettori capistazione e delle direttrici guardarobiere.
Infine, come era fatale, il discorso cade sulle riforme della scuola. Il Vecchio Maestro ne aveva visto molte e le paragona sommariamente tutte a colpi d’ala seguiti da voli di Icaro: di diversa durata ma di identica fine. E quando poi giunge alla riforma fatta e rifatta, il maestro taglia corto con una battuta -“Dio ve la mandi buona!”- lasciando in dubbio se intende rifarsi semplicemente alla riforma o voglia dare alle sue parole un significato più estensivo.
Il Vecchio Maestro ha finito il suo cammino nel tempo e sul suo giorno ormai si fa sera. Si sta approssimando il nostro commiato da lui. Il suo ultimo pensiero è un accorato rimpianto per la scuola, il suo indimenticabile paradiso perduto. Ci saluta e poi lascia avvolgere dal silenzio le sue memorie.
Le illustrazioni di questa pagina sono di Isabelle Arsenault, tratte da Capitano Rosalie (Mondadori) di Timothée de Fombelle.