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Eravamo il suono di Matteo Corradini, Lapis
Per una scrittura alta e trasversale, originale prova di letteratura di memoria; un’opera corale che non cavalca il mercato, che non riduce vite intere alla sola cifra di superstiti ma restituisce con coraggio, senza retorica e con grande abilità narrativa la vita di esseri umani nella loro pienezza.
La recensione di Vera Salton su Andersen n. 411 (aprile 2024):
Dal principio ho avuto la sensazione che parlare di questo libro fosse parlare di una idea, così salvifica e differente dai molti narrati fatti di cliché che gennaio e la Giornata della Memoria portano con sé. Questo libro in particolare, ma più in generale una filosofia che scaturisce anche dal suo lavoro come saggista, mostra come Corradini in questi anni abbia lavorato puntando sia a livello educativo che emozionale su chiavi ben più alte che la semplice empatia o il pietismo a volte insistito e quasi irrispettoso a cui ci ha abituato l’editoria. Un’editoria che insiste spesso in maniera sin troppo piena sulla tragedia, una produzione culturale che per rispondere a un potenziale mercato ha anestetizzato di fatti e di numeri rinunciando a un continuo ragionamento etico, appoggiandosi su escamotage facili e semplicistici, massificando il racconto di qualcosa che doveva divenire simbolo di mille altri momenti innanzi ai quali l’uomo si rifiuta di guardare. In fondo parlare di questo libro è parlare di misura: misura nel modo, attento a non essere auto compiaciuto per aver intrecciato un racconto potente, misura nel raccontare gli aneddoti e allo stesso tempo pronto a ferire in modo diretto, pieno, con il senso di un bilanciamento fra spensieratezza, ironia, crudeltà. Alto nella scelta precisa, asciutta eppure densa, mai scontata, della parola, cesellata con cura, intensa, pensata come forse lo stesso studio della lingua ebraica predispone a fare. Misura editoriale, per la scelta che Lapis fa di una copertina affidata al talento grafico di Francesca Gastone, non urlata, intelligente, delicata eppure dinamica.
Le ragazze e le donne dell’orchestra femminile di Auschwitz che la pervadono sono caratteri diversi; di queste, come dell’intera orchestra, sopravvivranno la gran parte, ecco l’idea di cui parlavamo all’inizio, raccontare oltre lo sterminio, raccontare cosa significhi sopravvivere, farsi salvare da una passione, e continuare a tenerla dentro, nella vita, come parte essenziale di sé. Sopravvivere a quegli anni diviene non solo il racconto di una ferita e di un marchio, di numeri che rimarranno impressi a vita, parole che si spenderebbero in facili retoriche, raccontare di quel momento significa raccontare di come la musica abbia fatto incontrare ragazze e donne di Paesi diversi, con storie differenti, caratteri e estrazioni sociali fra le più disparate e le abbia rese un unico capace di affrontare insieme il mondo, e di rimanere dentro di loro come testimonianza di sopravvivenza. Forse è proprio la coralità, la dimensione ampia di voci che entrano in campo e si susseguono, le vite appena accennate che rendono così intenso il romanzo, tanto da arrivare in quello che è il suo apice in uno dei momenti di chiusa del libro. A romanzo finito Corradini scrive Le storie dopo questa storia: poche righe per raccontare la pienezza di quelle vite dopo, che non sono state solo il dolore o la fatica del sopravvivere, ma sono: una delle fondatrici della English Chamber Orchestra, quella che ha fatto parte di un gruppo rap, quella che ha fondato una ONG, quella che è tornata a cantare nei locali di Parigi. Sono vite, donne, persone, con tutta la ricchezza del loro essere, e questo guardare limpido, questo raccontare pieno di verità e rispetto, regalano la chiave per guardarle e donare loro la dignità di cui abbiamo bisogno per fare, davvero, Memoria.
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