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La cosa nera di Kiyo Tanaka – trad. a cura della redazione, Topipittori
Per la non comune capacità narrativa di tavole limpide e precise. Per la capacità di rendere con cordiale misura lo sguardo magico dell’infanzia. Per l’incantevole misura con cui l’autrice ha saputo creare un mondo parallelo ricco di affabili e poetiche sorprese.
La recensione di Walter Fochesato su Andersen n. 413 (giugno 2024):
Un albo in formato oblungo, un sobrio e rigoroso bianco e nero, una piccola storia che potrebbe anche funzionare perfettamente senza testo. Ma quest’ultimo invece, pur nella sua voluta brevità, si rivela fondamentale nel gioco del fitto e virtuoso rapporto con le immagini. A partire dalla scelta dell’uso della prima persona. La bimba protagonista è uscita, forse per andare a scuola, quando nota, appunto, una creatura misteriosa, una cosa tutta nera su cui spiccano due occhi vivissimi e ammiccanti. Bastano poi pochi gesti perché la bambina si fidi di lei e la segua in quella che diventa, passo dopo passo, la scoperta di un mondo parallelo, il manifestarsi di un altrove dove la dimensione spazio-temporale muta completamente. L’ingresso in un’accogliente casa, il rito del tè e poi lo scorrere dell’anta di un armadio (come non ricordare l’incipit de Il leone, la strega e l’armadio?) che dà su di un giardino dove giocare, correre, arrampicarsi ed essere libere e felici. Le parole ci dicono altresì che questa nuova amica è visibile soltanto alla protagonista, gli altri non la vedono. E tutto ciò per la Tanaka, giovane illustratrice giapponese, è assolutamente normale, nascendo dalla profonda comprensione e dal totale rispetto verso il mondo dell’infanzia. Un contesto nel quale i passaggi dal mondo della realtà a quello del magico e del fantastico sono necessari e ripetuti. Il segno della Tanaka convince e affascina perché tutto in lei ci appare carico di grazia e di leggerezza, gentile e silenzioso come ogni atteggiamento di questa nuova amica. Semplice, verrebbe da dire. In realtà sapiente: guardando alla tradizione del proprio paese e alla cultura occidentale. Con un particolare interesse verso certa illustrazione fra gli anni ’50 e ’60: un pizzico di Sendak, forse i Moomin di Tove Jansson, sicuramente un Edward Gorey mondato da ogni asprezza e cattiveria. Il tratto è minuto e attento, quasi da vecchio incisore verrebbe da dire, e ogni sia pur piccolo particolare è poi congeniale alla costruzione, equilibratissima, dei ritmi narrativi delle tavole. Senza nessuna gratuità o ridondanza. Mi ha infine colpito, a tal proposito, l’affettuosa attenzione con cui l’autrice, rappresenta le piccole erbe che tenaci e sfrontate si affannano a crescere fra marciapiedi e muri e staccionate. E come non pensare, allora, a Fiori di città (Pulce) magnifico silent book di Sydney Smith? Anche le pagine finali, con il ritorno alla realtà, offrono peraltro una non piccola, delicatissima sorpresa.
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