Una riflessione sulla creatività e sul potere delle storie. In anteprima la prefazione di Shaun Tan al volume Visual Journeys Through Wordless Narratives. An International Inquiry With Immigrant Children and The Arrival (a cura di Evelyn Arizpe, Teresa Colomer e Carmen Martínez-Roldán; Bloomsbury Academic). Un’ampia indagine a più voci sulle risposte e le strategie di lettura del libro di Shaun Tan L’approdo. Una riflessione che si lega fortemente all’esperienza promossa da IBBY e altre realtà a Lampedusa intorno al progetto la Bibliotecacheverrà.
Per chi sono questi libri? Questa è senz’altro una delle domande più frequenti che mi viene posta, soprattutto da persone esterne al mondo dell’illlustrazione e dell’editoria. Mi tocca, visto che ho scelto di esprimermi attraverso l’arte dell’albo illustrato.
A volte si pensa all’albo illustrato come ad un prodotto di sartoria confezionato su misura, un capo di vestiario che è possibile prevedere come cadrà una volta indossato, come sarà percepito, con un buon grado di approssimazione: come se si potesse davvero scrivere o disegnare con un modello in mente. Nel mio caso niente potrebbe essere più lontano dal vero, anzi almeno la metà del tempo, mentre lavoro, non ho la più pallida idea di quello che sto facendo. L’unica certezza che ho è che certe storie raccontate per immagini mi catturano e voglio vedere come evolvono, fin dove possono condurmi. Non so affatto cosa sarà del mio libro una volta che, finite le illustrazioni e tutto, sarà pronto per lasciare la mia scrivania e cadere in altre mani.
È una strana dimensione, quella del lavoro creativo: c’è un tempo durante il quale non vedo mai i miei lettori, sono solo, in una piccola stanza, tutto preso a combinare e incastrare idee, mettendo insieme parole e immagini nello spazio della pagina, come un bambino che gioca con le costruzioni. In questa fase, al pubblico di lettori non penso proprio: sono tutto preso dall’inseguire un’immagine o una storia, totalmente rapito in una visione che in quel preciso momento mi interessa più di ogni altra cosa al mondo, preso da un’idea che mi sembra così interessante da farmi pensare che possa, forse, interessare anche qualcun altro oltre me. Penso che magari risulterà interessante in modo diverso per chi vive in un mondo lontano dal mio, che potrà forse assumere significati del tutto inattesi per chi ha esperienze diverse dalle mie, per chi sa cose che io non so, e che potrà rivelare ad altri significati per me inizialmente invisibili.
Per chi sono i miei libri, dunque? Sono per più lettori possibili, per lettori più diversi e lontani possibile. C’è una sola cosa infatti che abbiamo tutti in comune, una cosa estremamente preziosa: una capacità di immaginare che è imprevedibile.
Non ho avuto sempre le idee così chiare su questo punto. Da giovanissimo avevo in mente una specie di missione dell’illustratore, pensavo di avere il compito di rendere visibili le idee, di poter piantare in qualche modo immagini o messaggi nella mente del lettore, di convogliare una sorta di verità speciale: tante volte, erroneamente, la funzione dell’artista è stata rappresentata così.
Naturalmente il lavoro concreto, in seguito, il rigore dell’esperienza, i successi e gli insuccessi mi hanno portato a pensare che l’atto creativo è sempre un atto di co-costruzione del senso, di condivisione, un atto di generosità, umiltà e fiducia.
L’artista non costruisce nient’altro che un’architettura leggera dotata di pareti immaginarie, non vi dispone che pochi oggetti di arredo, per poi restare in attesa dell’ospite sconosciuto: se solo accetterà l’invito sarà questi ad animare con il suo cuore e le sue risorse interiori il luogo, a riempirlo di senso.
Il lettore quindi non è un puro destinatario di idee, è piuttosto un amabile conversatore che adora le possibilità straordinarie che il linguaggio può assumere, quando va oltre i limiti consueti del chiacchiericcio quotidiano.
Accomodàti nel salotto immaginario guardiamo insieme le cose, narratori e lettori, e tutto ciò che ci tocca è fare della nostra meraviglia materia di discussione. Non c’è un senso dato e pietrificato da tirar fuori con un’operazione di scavo archeologico: tutte le interpretazioni sono vive e giuste, e in continuo mutamento.
Due categorie di lettori mi hanno regalato i riscontri più affascinanti e inattesi sui miei libri: i bambini e le persone di altre culture (altre rispetto a me, un australiano dei sobborghi capace di parlare solo una lingua). I bambini si distinguono per l’onestà e la libertà delle loro interpretazioni, e per la loro naturale vocazione all’osservazione minuta dei dettagli delle figure, mentre gli adulti sono invece tutti presi dal carpire significati, rintracciare grandi concetti, ideologie, dottrine e -ismi vari.
Il mio lavoro è stato tradotto in molti paesi e così ho potuto ricevere i riscontri più stupefacenti proprio da persone di cultura diversa dalla mia: è incredibile come le immagini prodotte dalla rifrazione dell’esperienza individuale possano essere guardate e lette attraverso la prospettiva di altri occhi e di altri sguardi. The rabbits per esempio, un libro sulla colonizzazione australiana, è molto amato in Messico perché racconta una vicenda che appartiene profondamente anche alla storia dell’America Centrale. The red tree, sull’elaborazione del lutto e del trauma, è stato interpretato in Giappone come una risposta narrativa al recente tsunami, anche se il libro è stato in realtà disegnato dieci anni prima.
Così l’invenzione narrativa, quando riesce a svincolarsi da connotazioni troppo particolari e legate a singoli contesti, mostra il suo straordinario potenziale: può parlare a generazioni e culture diverse, si fa universale.
Queste due categorie di lettori, i giovanissimi e i lettori di culture diverse, si intersecano nel caso dei bambini migranti, che sono dunque i lettori ideali (se lettori ideali esistono) per un libro come L’approdo, per molte ragioni. La prima ragione, la più semplice, sta nell’assenza di una lingua unica, condizione che permette di offrire il testo a tutti, non solo a chi non parla inglese come me, ma anche a chi ha diversi livelli di alfabetizzazione, visto che il senso della narrazione è affidato interamente alle immagini.
Lavorando a L’approdo ero proprio interessato al recupero di questo sguardo primigenio, uno stadio pre-alfabetico dello sguardo. Tutti noi, quando eravamo nella stagione della prima infanzia, o quando ci siamo trovati in una condizione in cui non potevamo comunicare nella nostra lingua, abbiamo sperimentato com’è dipendere interamente dalla nostra intelligenza visuale, dalla capacità di costruire connessioni fra le cose senza usufruire della comodità funzionale del linguaggio, scritto o parlato: in realtà sarebbe bello e auspicabile poter mantenere questa capacità nel corso della nostra vita.
Dobbiamo ricordare sempre a noi stessi che il significato del mondo ognuno di noi lo costruisce personalmente, il senso si attribuisce, non si riceve dall’esterno: lo sanno molto bene, e da loro noi non abbiamo che da imparare, i bambini e i migranti. Si tratta di due condizioni, l’infanzia e la migrazione, al contempo disagevoli e privilegiate: non essere in grado di leggere il mondo attorno, per età o per lingua, allerta i sensi. Significa essere privi delle pastoie di quel meccanismo di identificazione forzata del reale, di quel sistema di archiviazione automatica del reale che può impedirci di guardare le cose per come sono veramente.
Ne L’approdo, il mio obiettivo non è stato tanto voler immaginare la vita di un migrante quanto poter provare a guardare come un migrante immagina la vita. Il modo in cui cerchiamo un senso al mondo, il modo in cui poniamo domande o costruiamo connessioni su quello che abbiamo intorno: il modo è molto più importante che la conoscenza in sé.
Questo tipo di lettura aperta è un processo che solo in parte si attiva da sé e va infatti insegnato e incoraggiato attraverso l’educazione. I libri di per sé non sono esseri viventi, sono oggetti statici che vivono perlopiù nella penombra. I libri non sviluppano automaticamente l’immaginazione o la capacità di comprensione, hanno bisogno che noi li apriamo e leggiamo, nel senso più ampio possibile; cosa che a volte può accadere, ed è un privilegio raro, anche senza l’aiuto di maestri e professori.
Uno delle questioni specifiche che riguardano la creazione di un libro senza parole è che può accadere che ad un primo sguardo il libro risulti al lettore perfino troppo silenzioso. A ciò si può aggiungere che spesso i libri illustrati vengono guardati con sufficienza, anche dai bambini stessi, quelli più grandi che sentono di aver conquistato, insieme alla capacità di leggere il testo scritto, il grado più alto di una prosa senza figure (come se questi gradi fossero naturali e non culturali come invece sono). Come se non bastasse, anche quando qualcuno legge un libro, le idee e i sentimenti che ci sono dentro sono generalmente silenziosi per natura, vanno scoperti in una dimensione interiore e in un tempo lungo; per funzionare non chiedono di essere chiamati a gran voce, richiedono al contrario un atteggiamento di indirizzo tutto personale.
È qui che il lavoro degli educatori può essere indispensabile, non in una spiegazione didascalica o nella mera decodifica del libro, ma nella mediazione dell’esperienza della lettura, attraverso l’invito alla concentrazione, all’attenzione e all’osservazione minuta di dettagli che altrimenti andrebbero persi, nella proposta di domande aperte su cui discutere insieme.
Andare oltre, registrare e studiare le risposta dei bambini, come accade nella ricerca Visual Journeys, è una meravigliosa estensione di quel processo; in particolare Visual Journeys dimostra come nella pratica della lettura si producano ramificazioni intellettuali ed emozionali che oltrepassano il libro e che scendono dalle pagine fino ad intrecciarsi profondamente con la vita quotidiana dei lettori.
L’approdo ha qui un destino perfettamente circolare: quello che è cominciato come un progetto di ricerca personale – raccogliere storie vere di migranti e proiettarle in una dimensione finzionale e fantastica – è divenuto uno spazio dilatabile dove l’invenzione e le immagini diventano fonte di ispirazione e stimolo per i migranti a raccontare le loro esperienze di vita.
In fondo la cosa più importante per un artista e un narratore come me non è dar forma a storie o figure, ma è costruire legami fra le persone perché si possano scambiare pensieri ed esperienze del mondo. Tutti proviamo il desiderio di essere in compagnia di qualcuno quando vediamo cose che ci piacciono molto, o che ci spaventano, che ci confondono o che ci ispirano: per sapere che non siamo soli, e che siamo tutti profondamente simili, anche se sembriano diversi ad un primo sguardo.
Sono profondamente grato ai ricercatori e a tutti coloro che hanno partecipato a questa ricerca: hanno infuso la vita in disegni inanimati, restituito importanza e spazio ai pensieri e ai sentimenti dei bambini, attribuito valore alla loro curiosità contagiosa, contribuito alla costruzione di nuove relazioni, ponti e legami, attraverso i libri.
[da Andersen 309 – gennaio-febbraio 2014. Scopri il resto del numero qui]
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