Questo articolo di Martina Russo è uscito su Andersen n. 304 – luglio/agosto 2013, monografico dedicato al cibo oggi esaurito nella sua edizione cartacea. Sostieni la rivista Andersen con un abbonamento: da lunedì 18 a lunedì 25 maggio 2020 puoi riceverlo in omaggio in formato digitale.
In principio erano le briciole di pane, le casette di marzapane, le mele avvelenate: il cibo, dalla più antica tradizione ad oggi, è stato uno degli elementi più ricorrenti nella letteratura per l’infanzia. Nutrirsi, d’altronde è una necessità primaria, una elementare esperienza cognitiva che, nel corso della storia, da un punto di vista culturale e letterario, ha assunto ruoli diversi ma sempre di centrale importanza. Influenzando non poco l’immaginario collettivo. Ad evolversi è stata soprattutto la funzione che il cibo ricopre tra le pagine di una storia: se torniamo indietro, guardando il repertorio fiabesco della tradizione, le pietanze più gustose rivelano particolari lati oscuri, assurgendo a strumento nelle mani di biechi personaggi e diventando l’esca perfetta con cui solleticare il palato dell’ignaro protagonista. Pensiamo a Hänsel e Gretel, messi all’angolo da un apparente peccato di gola. Dico apparente perché più che di gola, potremmo parlare di fame, vista la condizione sociale dei protagonisti e la situazione storica in cui tali racconti sono nati. Il medioevo delle carestie è pur sempre sullo sfondo: spesso è la mancanza di cibo il motore della vicenda, una condizione che addirittura costringe i genitori ad abbandonare i figli nel bosco, come accade ai già citati Hänsel e Gretel o a Pollicino e ai suoi fratelli. Di conseguenza, l’opulenza alimentare diventa un miraggio, un colpo di fortuna a cui difficilmente si può resistere.
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Un rapporto conflittuale, dunque, quello della fiaba con il cibo, che nei secoli successivi abbandona solo in parte la funzione narrativa del “tranello” di proppiana memoria, per assumere un valore più simbolico. È il caso ad esempio delle Avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, in cui la giovane protagonista si imbatte in sciroppi, pasticcini e funghi capaci di prodigiose trasformazioni. Il reverendo Dodgson, infatti, sceglie di rappresentare il cibo attraverso la prospettiva della bambina, rendendolo onnipresente tra le pagine del romanzo e mettendone in evidenza le caratteristiche più surreali. Alice diventa grande, piccola, il suo collo si allunga, torna alle dovute proporzioni: il tutto grazie a un morso o un sorso, il cui valore nutrizionale è indubbiamente messo da parte in favore di queste magiche proprietà.
Un potere metamorfico che ritroviamo anche in moltissime opere di un altro grande autore inglese, Roald Dahl, che ha letteralmente infarcito le pagine dei suoi racconti con le più strane preparazioni alimentari. Con il consueto cinismo Dahl ci racconta di una Magica medicina somministrata ad una nonna crudele, o descrive con brio le punizioni riservate a chi, nella Fabbrica di cioccolato, pecca di ingordigia, come Violetta, diventata un grosso pallone viola per aver voluto assaggiare una gomma da masticare in fase di sperimentazione o Augustus, risucchiato nei condotti del fiume di cioccolata. Caustica anche la soluzione di Cosciotto d’agnello, in cui un succulento manicaretto diventa arma del delitto. Lo humor nero di questo breve racconto conquistò anche un altro buongustaio, Alfred Hitchcock, che lo scelse per diventare un episodio di “Alfred Hitchcock presenta”. D’altronde il rapporto tra Dahl e il cibo era tale che lo stesso autore, insieme alla moglie Felicity, si premurò di raccogliere tutte le ricette contenute nelle sue opere, che vennero pubblicate postume nei volumi Roald Dahl’s revolting recipes (1994) e Roald Dahl’s even more revolting recipes (2001), il primo dei quali uscito nel 1995 per Mursia.
Tutto cambia a partire dal secondo dopoguerra, con il boom economico e l’aumento dei consumi. Anche alimentari, ovviamente. Il ruolo del cibo, dal punto di vista sociale come letterario, è completamente ribaltato. Non si parla più di carenza, ma al contrario, di eccesso. Ecco dunque spuntare all’orizzonte tematiche nuove legate ai regimi di alimentazione, alle buone abitudini a tavola, e, di conseguenza, ai disturbi alimentari infantili e adolescenziali. I libri si popolano di personaggi il cui rapporto con il cibo è piuttosto complicato: il 1992 è l’anno di Cuore di ciccia (Mondadori) di Susanna Tamaro, in cui il migliore amico del protagonista è un frigorifero tentatore. Stessa tematica per Vivian Lamarque, che nel 1998, con Cioccolatina. La bambina che mangiava sempre (Bompiani) racconta un’altra storia di obesità infantile. Una tendenza che non si è esaurita negli anni duemila, che vedono pubblicati racconti come quello di Silvana D’Angelo, A vederla così non si direbbe (Topipittori 2009, collana “Gli anni in tasca”) o Marilena la balena di Davide Calì e Sonja Bougaeva (2011, Terre di mezzo). Anche la casa editrice Fanucci, lo scorso maggio, ha pubblicato un romanzo che affronta i disagi di un’adolescenza sovrappeso, Un cuore XXL, esordio letterario di Sara d’Amario.
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Non ci sono solo contrasti però, e una visione positiva emerge comunque dalle ultime novità editoriali. Sull’onda del crescente interesse per la cucina – cavalcata soprattutto da recenti programmi televisivi – ecco nascere collane di ricettario per cimentarsi insieme – piccoli e grandi – nella creazione di gustose pietanze; o libri per scoprire i segreti celati dietro la preparazione, la raccolta, la produzione di alimenti che si trovano tutti i giorni sulla nostra tavola – cito ad esempio i titoli dedicati al cibo della collana Come nasce di Agostino Traini pubblicata da Panini o i Cuochi col sale in zucca (Editoriale Scienza, collana ”I quadernini”) di Emanuela Bussolati. Non mancano anche romanzi in cui i suggerimenti culinari sono parte integrante del tessuto narrativo, come accade in Gastón e la ricetta perfetta (Giunti, 2012) di Anna Lavatelli. Lo scenario è ancora ampio e gli spunti innumerevoli, complice forse la crisi – o forse la moda – che promuove il ritorno in cucina, sottolineando l’importanza di un recupero delle tradizioni casalinghe – per far fronte alle difficoltà economiche o con l’obiettivo di ripristinare una antica manualità andata perduta – e assegnando al cibo il valore di vero e proprio oggetto culturale. Una nuova prospettiva che rende le pagine da sfogliare ancora più numerose: non rimane che augurare buona lettura e… buon appetito!
L’immagine che apre questo articolo appartiene al progetto Fictitious Dishes: Di pranzi e spuntini sono popolate le più belle pagine della letteratura: talvolta alcuni piatti rimangono scolpiti nella memoria dei lettori, talvolta diventano parte integrante e rappresentativa del tessuto narrativo, talvolta invece rimangono dettagli marginali alla trama. Con queste premesse la designer americana Dinah Fried si è dedicata al progetto Fictitious Dishes, con cui ha voluto fermare in immagine i pasti più famosi della letteratura, andando a recuperare le pagine dei suoi libri preferiti e mettendosi allo stesso tempo dietro ai fornelli e all’obiettivo. Così ci vengono presentate la zuppa di vongole di Ismaele, narratore di Moby Dick, la prima e unica porzione di minestra di Oliver Twist, il servizio da the del Cappellaio Matto. E molto altro ancora. La galleria, online sul sito della designer, comprende dieci scatti fotografici in cui Fried riproduce e rielabora – con sguardo ironico e grande attenzione al dettaglio – questi momenti conviviali, invitandoci a indovinare a quale capolavoro facciano riferimento gli appetitosi scenari.
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