L’articolo di Davide Boero, che esplora le pellicole cinematografiche in cui si narra la tragedia della Shoah, sarà pubblicato su Andersen n.379 – gennaio/febbraio 2021 (in uscita a breve), accanto a un approfondimento che raccoglie le principali uscite editoriali dedicate all’Olocausto. Pubblichiamo l’articolo anche online in occasione del giorno della memoria, mercoledì 27 gennaio. Sostieni la rivista Andersen e regala(ti) un abbonamento.
La necessità del Cinema di trovare soggetti interessanti è entrata spesso in contrasto con chi sosteneva non fosse opportuno reinventare filmicamente (quindi semplificare) un evento inimmaginabile come la Shoah. In ogni caso la Settima Arte è riuscita spesso nell’intento di realizzare prodotti di successo che rendessero contemporaneamente giustizia a quell’immane tragedia (si pensi a Schindler’s List di Steven Spielberg, 1993); tra le tante pellicole (cfr. Claudio Gaetani, Il cinema e la Shoah, Le Mani, Recco-Genova, 2006) merita un’analisi quel sottogenere che mette al centro della narrazione i minori e la necessità di costruire attorno a loro un guscio di fantasia che li protegga da una realtà troppo terribile: il meccanismo è lo stesso di Jakob il bugiardo (Peter Kassovitz, 1999; remake di un film tedesco del 1975), in cui il protagonista finge di possedere una radio e inventa notizie sulla guerra in corso (siamo nel 1944), per dare speranza a una bambina e agli altri sopravvissuti di un ghetto polacco.
Al filone appartiene a pieno titolo il perduto The Day the Clown Cried diretto da Jerry Lewis nel 1972, ma abbandonato dal regista-attore dopo un primo montaggio; come quasi tutte le altre pellicole di cui parleremo, la storia mescolava pathos e commedia per raccontare fatti altrimenti indicibili per il loro orrore. Pare che Lewis interpretasse un clown tedesco disoccupato che finisce in un campo di concentramento per alcune affermazioni su Adolf Hitler; per la sua capacità di far ridere i più piccoli viene poi utilizzato come un moderno pifferaio di Hamelin, per condurli docilmente sui treni diretti ad Auschwitz. Il riscatto dell’uomo arriverebbe quando decide di rimanere nella camera a gas con un gruppo di bambini, cercando di far superare loro il panico per quanto sta succedendo. Al di là della trama, forse troppo meccanica e costruita per commuovere, la vicenda appare interessante per il discorso che fa sulla possibilità di alleviare la sofferenza attraverso la creatività e la suggestione fantastica. Ne L’isola in via degli uccelli (Søren Kragh-Jacobsen, 1997; dal romanzo omonimo di Uri Orlev) l’undicenne Alex sopravvive in solitudine in un edificio semidistrutto nel ghetto di Varsavia grazie all’ispirazione che trova nel romanzo Le avventure di Robinson Crusoe.
I libri non sono gli unici compagni di fuga da un contesto angoscioso, anche i film hanno un loro ruolo, come mostra Lucky Star (Max Fischer, 1980), strana pellicola tratta da un’idea di quel genio dell’illustrazione che fu Roland Topor (1938-1997) e ambientata nel 1940. Il tredicenne ebreo David è infatti appassionato di western e ogni settimana, immerso nel buio di una sala di Amsterdam, impara a memoria le lapidarie battute di sceriffi senza paura, pronti a morire pur di rendere immortale l’idea di giustizia che incarnano. Approdato in un paesetto di provincia dopo la deportazione della famiglia, il ragazzo trova una dimensione ideale nella fattoria di una gentile signora che gli dà lavoro e gli regala una pistola ad aria compressa, alimentandone le fantasie da ranchero; è così che all’arrivo di un reparto di truppe tedesche, pur consapevole di avere il destino segnato, non si perde d’animo e si autoconvince che la stella giudaica appuntatagli sul petto non sia gialla ma dorata, come quella di un vero tutore della legge. Sapendo di dover “essere pronto a morire da uomo quando sei uno sceriffo”, David riesce a catturare un colonnello-fuorilegge (Rod Steiger) e si avvia a testa alta verso un impari duello finale che porta alle estreme conseguenze la sua idea di eroismo e lo conduce a perdersi definitivamente nella finzione.
L’ironia yiddish che contraddistingue Lucky Star è la stessa del famoso Train de vie – Un treno per vivere (Radu Mihăileanu, 1998), in cui l’intera comunità di un insediamento ebraico nell’Europa dell’Est mette in scena una finta deportazione per scappare dai nazisti e seguire le indicazioni del visionario matto del villaggio Shlomo; l’impossibilità di un lieto fine fiabesco è sancita dalla sequenza conclusiva, in cui si scopre che l’intera pellicola non è che il sogno ad occhi aperti dell’uomo, con lo sguardo perso al di là del filo spinato. Il pazzo è come un bambino nel corpo di un adulto, ne ha la stessa capacità speculativa, può affrontare la tragedia con animo innocente.
Chi non riesce a vedere il mondo intorno a sé è il piccolo serbo Mischa, cieco dalla nascita e coprotagonista di Andremo in città (Nelo Risi, 1966; dal romanzo omonimo di Edith Bruck, moglie del regista e sopravvissuta ai campi di concentramento); spetta alla sorella adolescente Lenka (Geraldine Chaplin) accudirlo dopo l’incarcerazione del padre maestro. Siamo nel 1941 e la ragazza, oltre a nutrire Mischa nel difficile contesto della guerra (le botteghe ebraiche sono tutte chiuse e la comunità vive nel terrore delle SS), continua a inventare per lui storie gratificanti; gli legge lettere inesistenti del padre e gli promette che prenderanno un treno per andare in città, dove il bambino potrà essere operato agli occhi. Il treno che ogni giorno fischia prima di rallentare a una curva è in realtà quello dei deportati; Lenka lo sa, ma preferisce lasciare il fratello nella finzione piuttosto che buttargli addosso il peso dell’assenza di ogni speranza. L’adolescenza rubata, l’impossibilità di vivere liberamente l’amore e di avere una famiglia, la certezza che le future generazioni faranno fatica a credere all’orrore che li circonda fanno della ragazza la perfetta rappresentante di una gioventù destinata a sparire nella terribilità della Storia.
Può essere interessante a questo punto costruire un parallelo con il famoso e pluripremiato La vita è bella (Roberto Benigni, 1997); di fronte alla forza (anche estetica) dell’opera di Nelo Risi, il lavoro di Roberto Benigni appare come sbiadito e un po’ impreciso nel messaggio. Se la voce della sorella cerca di risparmiare inutili sofferenze al fratello destinato a concludere la propria esistenza in un lager, il cameriere Guido Orefice trasforma la prigionia in una specie di gioco a premi per salvare la vita al figlio Giosuè. L’ambiguità della pellicola è tutta in questa metamorfosi fantastica dei luoghi compiuta dal padre; come sostiene in La memoria rende liberi. La vita interrotta di una bambina nella Shoah (con Enrico Mentana, Milano, Rizzoli, 2020) Liliana Segre, che ha vissuto in prima persona la crudeltà inenarrabile di Auschwitz e ha passato la vita a portare la propria memoria nelle scuole, Benigni avrebbe dovuto sottolineare maggiormente che La vita è bella era una favola, non una ricostruzione realistica del contesto. Pur emotivamente coinvolgente e mai ricattatorio, il film narra infatti accadimenti assolutamente impossibili come salutare tramite megafono la moglie rinchiusa nell’ala femminile e tenere nascosto un bambino nelle baracche del campo, riuscendo addirittura a fargli fare merenda con i figli dei gerarchi nazisti. È chiaro come il regista fosse interessato a mostrare un’edificante storia di amore paterno per educare le coscienze degli spettatori, ma è anche vero che nella fabula il sopravvissuto personaggio di Giosuè non porterà con sé alcun ricordo dell’Olocausto, impedendo alle future generazioni di conoscerne la tragica portata attraverso la testimonianza diretta.
[Questo articolo è uscito su Andersen n. 379 (gennaio/febbrai0 2021), corredato da un approfondimento che raccoglie le principali novità editoriali dedicate ai temi della Memoria e della Shoah]
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