Premio Leggimi Forte – Quarta edizione (2016/2017)

Quarta edizione del Premio Leggimi Forte. Il premio, distinto in due categorie, Bambini (V classe primaria e I media) e Ragazzi (II media e II superiore) viene assegnato da una giuria di oltre 250 alunni di varie scuole d’Italia. Al premio, promosso dall’Associazione For Children ed il Centro Leggimi Forte di Pomigliano d’Arco in collaborazione con Andersen, partecipano scuole della provincia di Napoli (Pomigliano d’Arco, Casalnuovo di Napoli, Roccarainola, Caivano, Napoli) della provincia di Modena (Sassuolo) e di Padova (Albignasego).

Le classi partecipanti al Premio Leggimi Forte hanno scelto anche quest’anno i loro vincitori, portando sul podio della sezione bambini (quinto anno della scuola primaria e prima media) Lei. Vivian Maier (Orecchio Acerbo) di Cinzia Ghigliano e, per la sezione ragazzi (seconde classi delle scuole secondarie di primo e secondo grado) Sorelle di carta (Mammeonline) di Cristiana Pezzetta, illustrato da Antonio Boffa.

Tra i finalisti di quest’anno c’erano anche, per la sezione bambini, Quando ai veneziani crebbe la coda (Rizzoli) di Andrea Molesini; La storia di Marinella. Una bambina del Vajont (Feltrinelli) di Emanuela da Ros; Tesla e la macchina a energia cosmica (Editoriale Scienza) di Luca Novelli. Per la sezione ragazzi: Più veloce del vento (Einaudi ragazzi) di Tommaso Percivale; Diario di Sunita (Rizzoli) di Luca Randazzo; Rapsody in blue (Rueballu) di Serena Piazza. La parola ora passa ai ragazzi delle scuole, che dovranno leggere e scegliere i loro titoli preferiti, per decretare i vincitori in primavera.

La pagina dedicata al premio

Qui di seguito le recensioni di tutti i libri finalisti, selezionati dalla redazione della rivista Andersen e recensiti sulla rivista negli scorsi mesi.

SEZIONE BAMBINI

Andrea Molesini, Quando ai veneziani crebbe la coda, Rizzoli
quando-ai-veneziani-crebbe-la-coda-450x712Bella e inaspettata l’iniziativa editoriale di Rizzoli che, con i primi tre titoli, ha iniziato a riproporre alcuni mesi or sono i romanzi e i racconti per l’infanzia di Andrea Molesini. L’autore è diventato noto al grande pubblico per aver vinto nel 2011 il SuperCampiello, e altri riconoscimenti, per il romanzo Non tutti i bastardi sono di Vienna, al quale han fatto seguito, sempre per Sellerio, La primavera del lupo e Presagio. Però, come non pochi lettori di Andersen ricorderanno, i suoi esordi di scrittore risalgono di fatto al 1989 allorché per Mondadori pubblica appunto il romanzo dedicato a Venezia, sua città natale, e con il quale l’anno dopo vince il Premio Andersen a cui nel ’99 farà seguito il riconoscimento come miglior scrittore dell’anno. È il periodo d’oro del progetto “Junior”, promosso e diretto da Francesca Lazzarato e Margherita Forestan, e Molesini fino al 2000 pubblica undici titoli più due opere di carattere saggistico fra cui ricordiamo Nero latte dell’alba, dedicato all’olocausto. Una produzione quindi numericamente attenta, ben calibrata e sempre volta alla qualità della scrittura. A distanza di non poco tempo li ho riletti con immutato piacere scoprendo e riscoprendo piccole cose che avevo dimenticato, come i versi di “Oh luna luna mirtillo/ luna che canti, luna che ridi…”, che – con i miei alunni – mi erano serviti, come felice pretesto, per un bel lavoro di produzione poetica. Ma Quando ai veneziani crebbe la coda presenta ovviamente ulteriori meriti, da una scrittura briosa, avvincente, elegante e incalzante alle continue invenzioni fantastiche che riprendono, in assoluta originalità e completa libertà inventiva temi e personaggi quali la Befana e gli angeli custodi. Non senza dimenticare però, nella serrata e limpida trama, un ben preciso riferimento ai pogrom e alle persecuzioni contro gli ebrei messe in atto dal Consiglio dei Dieci e in particolare dal losco Grifani. Aznif e la strega maldestra si svolge invece, guarda caso, ad Amsterdam, la Venezia del Nord, “dove non si contano i comignoli e i canali, né i sorrisi o gli animali”. Qui la componente magica e una nota di nitida meraviglia sono ancor più marcati. Ma, su tutto, mi paiono emergere due costanti. Da un lato il personalissimo recupero di figure e topoi della fiaba classica e, dall’altro, una vena di fresca e acuta ironia. Prorompente poi nei sette racconti che compongono Finferli Caldi. Incorreggibili pirati, un dinosauro parlante alle prese con uno stolido collezionista di farfalle, un cuoco filoso celebre per i suoi ossi buchi, il “mito” con la nascita dell’infausto Vento del Nord. Su tutto l’amore, nelle sue forti e imprevedibili forme, nella sua irriducibilità ineffabilità. Perché la bellissima Angelica si innamora del vecchio e lercio Panciablù? Che cosa unisce, al di là della musica, la prosperosa arciduchessa e il topo suonatore di pianoforte? E, ancora, il menestrello Girolamo riuscirà, un giorno, a conquistare l’amore della contadina di ghiaccio? C’è, altresì, in queste piccole storie perfette una vena di malinconia, come si addice al fiabesco.
Ma queste righe sono anche l’occasione per ricordare Alberto Rebori, un amico scomparso troppo presto, le cui illustrazioni impreziosiscono questi titoli. Il suo ultimo lavoro. Schivo, modesto e di poche parole, da buon ligure dell’entroterra, aveva esordito come impietoso e implacabile disegnatore satirico (Tango e Linus, giusto per citare due testate), imponendosi per un tratto veloce e incisivo, di marcata novità e audacia. Poi, sempre grazie alla Mondadori di quel tempo, si era fatto conoscere illustrando memorabili opere di Jerry Spinelli, Anthony Horowitz, Philip Ridley, Hugh Scott e tanti altri. Autore di fumetti aveva forse dato il meglio di sé nell’illustrare il Cuore di De Amicis, assieme a Federico Maggioni, e da solo, il classico ricettario di Pellegrino Artusi, ambedue per Corraini. Certo per noi della rivista il suo nome resta legato alle fulminanti e freschissime vignette che per alcuni anni aveva pubblicato nella pagina di apertura.  Dedicate a vizi e virtù, fatti e misfatti del mondo della scuola, della lettura, delle biblioteche e del mondo dell’editoria, nulla hanno perso del loro valore (e attualità).       
(Walter Fochesato su Andersen n.336 – ottobre 2016)

Emanuela da Ros, La storia di Marinella. Una bambina del Vajont, Feltrinelli
Da Ros_La storia di Marinella_KIDS FK.inddRaccontare la Storia, ancor più se parte di una memoria collettiva fatta di gravi colpe, abusi alla natura e all’uomo, tragedie, è un atto di coraggio, e un rischio grandissimo. Eppure, a volte, qualcuno riesce a indovinare la cifra esatta. Emanuela Da Ros si è lanciata nell’impresa di narrare la tragedia del Vajont, vicino ai suoi occhi per geografia e paesaggio, confermando come a volte siano le storie stesse a cercarti e raccontarti un pezzetto di vita. Nel cimitero di Fortogna, il memoriale del Vajont, esiste una piccola teca all’interno della quale gli oggetti raccontano quello che è accaduto: la precisione di un orologio fermo all’ora della tragedia, occhiali e cornici vuote e rotte, un quaderno di una bambina, Marinella, dieci anni, coi suoi temi e il suo scrivere incerto. Da qui inizia a darle voce Emanuela Da Ros. La parola corre nell’arco della giornata di Marinella, una giornata normale, fatta di piccoli ricordi, di scaramucce, di pensieri grandi e sensazioni forti di un qualcosa che nell’aria attende. Il senso vero di quelle ultime ore passate nei paesi intorno alla diga invade il lettore, e quando l’acqua deborda, solo sul finale, si è così affezionati ai personaggi dei paesi, ai volti, ai caratteri, che quello, quel lato umano che gli ingegneri dimenticarono, arriva forte come uno schiaffo, con tutta la forza dell’onda, a raccontare la desolazione di una tragedia. Un libro che vive della forza di riuscire a raccontare con voce autentica una storia, a giocare con la lingua senza essere compiaciuto, che riporta le frasi delle persone, degli articoli del tempo, e fra le righe si sente allo stesso tempo la voce saggia dei vecchi e quella indignata di Tina Merlin. Si vedono i pensieri e i modi differenti di affrontare quella novità immensa dell’uomo che sta cambiando le vite, che ha imposto espropri e isolato villaggi, e che sembra rendere inquieta la montagna. Vajont ha creato la memoria di quello che significa il sopruso dell’uomo sulla natura, ma è rimasto nelle coscienze di questa parte di Veneto e Friuli in maniera potente, forse perché la tragedia era lì già scritta nei nomi dei luoghi, di quel monte Toc – “pezzo” nella sua traduzione – che già dichiarava il suo mancare della solidità che l’uomo gli stava imponendo. Questo libro ha il pregio di raccontare senza indugiare, racconta prima di tutto una storia bella di amicizie bambine, di giochi e nascondigli, di piccole promesse; il giorno dopo tutto questo non esisterà più, ma i bambini non lo sanno, percepiscono la preoccupazione e cercano di decifrarla come per tutto quello che è il mondo degli adulti. Il dopo è quello delle macerie, dei se, delle cronache e della desolazione. Poche pagine asciutte, piene di rispetto. Un romanzo veloce che sul finale rimane dentro con tutta la sua acqua e il suo fango, con la sensazione della forza tremenda di quest’acqua e della cecità dell’uomo, un romanzo per fare memoria e guardare avanti, ogni giorno, in questi anni, mesi, giorni di acque che annegano, in cui rimane la speranza di ricominciare a sognare bambini salvati.
(Vera Salton su Andersen n. 326 – ottobre 2015)

Cinzia Ghigliano, Lei. Vivian Maier, Orecchio Acerbo
210 Lei Vivian MaierPoco o tanto che sia il nome di Vivian Maier è diventato celebre nel volgere di pochi anni. Nata a New York nel 1926 e morta a Chicago nel 2009, bambinaia di professione, con unica grande passione nella vita, la fotografia. Accompagnata costantemente da una Rolleiflex (e nel libro è proprio l’apparecchio a parlare e a dirci l’essenziale attorno alla sua padrona) la Maier scattò più di centomila foto che, conservate in scatoloni (si trattava in genere di negativi e rullini ancora da sviluppare) sono state fortuitamente e fortunosamente riscoperte, due anni prima della morte e a sua insaputa. Dando con ciò il la ad un vero e proprio caso. Qualcuno, poi, lo ha accostato a quello di Emily Dickinson che per buona parte della sua vita scrisse centinaia e centinaia di poesie, mai puabblicate e ritrovate dalla sorella soltanto dopo la sua scomparsa. Ma mentre la Dickinson si “murò” nella sua camera per non uscirne più, Vivian amava la vita en plein aire e, ancor più, amava registrarla, coglierla nelle piccole cose di una quotidianità che diventa metaforizzazione del mondo “grande e terribile”, per dirla con Gramsci. Vi sono autoritratti (dato che, come superficie per il riflesso, adoperava di sovente specchi o vetrine di negozi) e, in particolare scene di strada: a New York, a Chicago, a Los Angeles, in Francia (a Champsaur, paese della madre) e poi nel corso di un lungo viaggio per il mondo. Acuta, sincera, amante dell’infanzia e della libertà, bizzarra ha attraversato con caparbia leggerezza il ‘900, regalandocene immagini precise e al tempo stesso ineffabili. Ora giunge questo splendido albo scritto e illustrato da Cinzia Ghigliano, una delle voci più alte del fumetto (e dell’illustrazione) italiane. Libera di esprimere il suo talento e la sua sensibilità, senza dover sottostare a condizionamenti editoriali, ritorna per certi versi alla misura del balloon con le storie, al femminile, di personaggi quali Lea Martelli, Isolina, Solange. Qui esplora tutte le tonalità di un mondo in grigio regalandoci un ritratto nitido e affettuoso della enigmatica “tata”. Le sue tavole, non di rado, si rifanno alle foto della Maier ma sono opera di assoluta ed emozionata reinterpretazione e (ri)creazione. La pennellata morbida e attenta, corposa ed evocativa ci rende alla perfezione il senso di una avventura umana sospesa nel tempo, di un irriducibile e singolare amore per la libertà. Talché aleggia, irrisolta, la domanda per chi e perché Vivian Maier guardava e quindi registrava la vita? “Usava limone e aceto per lavarsi i capelli, portava camicie da uomo, imprecava in francese, conosceva a memoria tutti i racconti di O.Henry”. E questo ce la dice già lunga…

(Walter Fochesato su Andersen n.333 – giugno 2016)

Luca Novelli, Tesla e la macchina a energia cosmica, Editoriale Scienza
67406fAl massimo del suo successo, all’inizio del ’900, Nikola Tesla era già protagonista di popolari romanzi di fantascienza come To Mars with Tesla o The Mystery of the Hidden World. Da vecchietto, poté vedersi trasformato in un pimpante cartone animato insieme a Superman. Dopo la sua morte, nel 1943, questa sua “vocazione”  lo ha portato ad essere primo attore o comprimario di una quantità crescente di documentari, film e serie televisive di fantascienza, spesso in buona compagnia. Nel romanzo Wonders of the World di Sesh Heri lo troviamo assieme a Mark Twain e Harry Houdini occupato a salvare il mondo. Nel film The Prestige (diretto da Christopher Nolan, 2006) è interpretato da David Bowie. Nei fumetti appare spesso e volentieri e Hirohiko Araki gli ha dedicato un manga. L’elenco potrebbe continuare e occuperebbe almeno due pagine. Ma Tesla, anche se aveva curiose abitudini e un aspetto un po’ strano, era tutt’altro che uno “scienziato pazzo”. A Tesla dobbiamo una grande quantità di invenzioni che usiamo tutti i giorni:  dal tipo di corrente elettrica (alternata) al telecomando col quale accendiamo il televisore, dai motori elettrici alla radio che secondo una sentenza del 1943 della Corte Suprema degli Stati Uniti non è stata inventata in primis dal  nostro Guglielmo Marconi. A Nikola Tesla non sono mancati premi e seri riconoscimenti della comunità scientifica. Portano il suo nome persino un asteroide e una unità di misura internazionale (il Tesla, unità di induzione magnetica). Ma il personaggio, pur affascinante, risulta anomalo, soprattutto se messo a confronto con gli altri grandi della scienza. Vien voglia di fare un parallelo con Leonardo, che come “scienziato” è stato riscoperto solo cinque secoli dopo la sua morte. Tesla infatti non sembra un uomo del suo tempo. Come per Leonardo qualcuno ipotizza una sua origine extraterrestre per la sua capacità di disegnare il futuro e per i suoi “doni tecnologici” elargiti ai terrestri. Per esempio cento anni fa Tesla aveva profetizzato un mondo dove ovunque, con un piccolo strumento, si sarebbe potuto ricevere e trasmettere immagini, notizie e comunicazioni personali. È il mondo wireless di oggi, dove con un telefonino possiamo vederci un tg o scambiare foto con gli amici, anche tra Polo Nord e Polo Sud. Io stesso, pur appassionato di fantascienza dagli anni sessanta del Novecento, da ragazzino non immaginavo che durante la mia vita avrei avuto tra le mani un oggetto così potente. Ma Tesla aveva profetizzato ben altro: una fonte di energia gratuita, pulita e utilizzabile in qualsiasi luogo della Terra. La chiamava Energia Cosmica, fluente dallo spazio e dal Sole, ricavabile dalla differenza di potenziale che si crea tra i vari strati della Terra e dell’atmosfera. Secondo Tesla era fruibile con un sistema di torri come la “Wardenclyffe Tower” che aveva costruito a Long Island, vicino a New York. Intorno a queste sue torri, l’energia elettrica sarebbe stata disponibile ovunque e senza fili. Si sarebbe potuto circolare con auto elettriche senza neppure bisogno di ricaricare le batterie!  Altri mezzi di trasporto avrebbero potuto muoversi senza attrito nell’aria, su strade elettromagnetiche, vincendo la gravità. Da notare che le auto elettriche non sono un’invenzione di oggi. Anzi erano un oggetto di moda tra le signore della High Class di New York, che consideravano sporche e disdicevoli quelle a benzina o petrolio. Thomas Alva Edison organizzò persino un tour per promuovere il suo modello di auto elettrica. Il 17 settembre 1910 due auto elettriche Edison partirono da New York e conclusero il loro tour simbolicamente sul Monte Washington nel New Hampshire. Le auto di Edison avevano un’autonomia di 160 km  e funzionavano con  batterie ricaricabili di sua invenzione. Edison aveva immaginato un mondo percorso da milioni auto elettriche, e Tesla era sicuramente d’accordo con lui.
Ma un ex dipendente di Edison, un certo Henry Ford, mise a punto una macchinetta a basso costo, la Modello T (quella di Nonna Papera) che andava a benzina, intorno al petrolio si crearono interessi miliardari e il futuro – non solo delle auto – prese un’altra strada.  Se già tutto questo fa pensare, la biografia di Tesla, con le sue avventure, le sue invenzioni e  suoi progetti, può aprire gli occhi su scenari ancora più sorprendenti. Si intuisce che Tesla ha ispirato le scenografie di  Metropolis di Fritz Lang e le macchine da guerra che animavano i fumetti di Flash Gordon. Inquietano il suo “raggio della pace”, in grado di distruggere intere città, e la sua macchina “capace di indurre terremoti”. Possono far sorridere le trasmissioni radio che riteneva inviate dai “marziani”, ma in realtà è stato il primo ricevere onde elettromagnetiche provenienti da stelle lontane, il primo a comandare un robot a distanza, il primo ad accendere una lampadina – senza fili – a cinquanta chilometri di distanza. Un genio, quindi, che amava farsi ritrarre tra lampi e saette.
Forse, dopo aver superato se stesso, il suo lato fantastico oscurò la sua creatività e danneggiò la sua credibilità. Pur amato e rispettato non trovò più i finanziamenti necessari per proseguire le sue ricerche e finì la sua vita nella camera 3327 del New Yorker Hotel di Manhattan. Solo come era sempre stato, ma non dimenticato come recitano alcune sue biografie. Maturo invece per diventare un mito.
(L’articolo di Luca Novelli dedicato a Nikola Tesla su Andersen n.336 – ottobre 2016)

SEZIONE RAGAZZI

Tommaso Percivale, Più veloce del vento, Einaudi ragazzi
711pgYIm9vLDi Percivale avevo molto apprezzato Ribelli in fuga, eccellente romanzo dedicato alla resistenza di un gruppo di scout, allorché nel 1926 il regime fascista creò l’Opera nazionale Balilla. Adesso la lettura di quest’ultima opera conferma come l’autore sia una delle voci più interessanti della narrativa italiana per l’infanzia. Al netto, ovviamente, di una serie di libri di carattere seriale o d’occasione. Più veloce del vento è la biografia di Alfonsina Strada, una delle prime donne italiane a correre in bicicletta e a farne una scelta di vita e un mestiere. Da un lato un’attenta ricostruzione degli anni delle imprese sportive, dall’altro, per quanto riguarda l’infanzia, un largo spazio concesso all’invenzione, dato che di quegli anni si sa pochissimo, come scrive l’autore in appendice. Alfonsina Morini nasce nel 1891 a Fossamarcia, una frazione di Castenaso a non molta distanza dal capoluogo emiliano  in una famiglia poverissima di contadini, dove la nascita di una bambina era pur sempre vissuta come una iattura. Un giorno scopre l’ebbrezza della bicicletta e, sfruttando il vecchio catorcio del padre, inizia a pedalare di nascosto, diventando bravissima e audace nel giro di poco tempo. Finché non riesce ad acquistarne una tutta per sé, con i sudatissimi risparmi. Da qui le prime gare e vittorie, la rottura con la famiglia, le dicerie, lo scandalo per una ragazzina che corre in pantaloncini corti e magliette attillate. Poi è la volta di Torino, dove sconfigge concorrenti ben più note e agguerrite, e di tournée all’estero che la portano persino alla corte dello zar. Giungono gli anni della Prima guerra mondiale, nei quali le attività sportive di fatto si interrompono. Finché, nel 1924, la grande occasione: la possibilità di partecipare al Giro d’Italia, in un’edizione peraltro massacrante e ardua. Osteggiata da non pochi corridori maschi e accusata, ingiustamente, di spinte e traini a suo favore, la Strada (dal nome del primo marito) riesce a completare il giro, in un’impresa che ha del miracoloso. Quella che Percivale ci racconta è quindi non solo una bella storia di sport ma un racconto di riscatto e di emancipazione femminile. Non a caso Alfonsina non poté più partecipare ad altre edizioni del Giro (sono gli anni in cui il fascismo si struttura come regime). Orbene, al di là dei contenuti, i pregi del romanzo risiedono nella non comune qualità della scrittura. Limpida, piana, convincente ma altresì alta, mai banale e dotata anzi di una sua efficace ricercatezza. E di questa vita esemplare e avventurosa l’autore ci fa sentire il senso vero della sfida, della scoperta di un mondo diverso. A dir poco efficace il capitolo introduttivo dove si narra il risveglio antelucano di Alfonsina in partenza per una tappa del Giro (dolorante per le cadute, con l’abbigliamento liso e rattoppato e un catino di acqua diaccia per lavarsi), contrapponendolo ai precetti di uno dei tanti galatei per fanciulle abbienti e dabbene. “La biancheria, oggigiorno assurge a nuovo splendore. Sottogonne e copribusti di mussola o seta vengono impreziositi da applicazioni di valenciennes, ricami e nastrini di raso”.

(Walter Fochesato su Andersen 336 – ottobre 2016)

Luca Randazzo, Diario di Sunita, Rizzoli
vet_rizzoli_sunitaSunita ha dieci anni ed è molto orgogliosa del suo nome – “è un nome indiano, perché i rom sono indiani di tanto tempo fa” – : le piace scriverlo dappertutto, sul muro della scuola, sulla bicicletta, sui mattoni di casa, così poi, quando lo rivede, si diverte ad immaginare che sia opera di un suo fan. È una ragazzina sveglia, intelligente ed ironica, ma non può più andare a scuola da quando il pulmino del comune ha smesso di passare dal campo rom della Bigattiera, alle porte di Pisa, privo di luce, acqua, e servizi igienici. Il suo sogno di finire le elementari incontra la sensibilità di Luca Randazzo, fisico per laurea ed insegnante per passione, che le apre la porta della sua famiglia: il diario di Sunita è il racconto di un anno scolastico speciale, vissuto sul filo tra due mondi, con equilibri da costruire e da mantenere, spazi di casa, ma anche spazi interiori, da allargare per far posto ad una “figlia in prestito” come si definisce Sunita, che durante la settimana vive in famiglia con Luca e Clelia, ma nel week-end torna a “casa sua” con tutte le sue sorelle, i suoi fratelli e gli amici con cui gioca a pallone e corre a piedi nudi nelle pozzanghere.

“Il Diario di Sunita è il racconto di un particolare anno della sua vita e della nostra – scrive l’autore nella nota conclusiva del libro – un po’ romanzato ma abbastanza fedele”. Randazzo riesce a stare fuori sia da un’ingenuità artificiosa, facile rischio quando un adulto scrive con la voce di un bambino, sia da un accento eccessivamente retorico sui diritti perduti degli “ultimi”. Lo sguardo di Sunita infatti è allegro, sincero, aperto e spesso scanzonato, capace di vedere ombre e luci del mondo dei gadzè come del suo, cui comunque continua ad appartenere con affetto ed orgoglio: durante una tromba d’aria notturna mentre è ospite di Luca non ha pace finché non riesce a telefonare a casa per essere certa che il campo non sia stato allagato o le baracche scoperchiate. Ma è anche il diario di una bambina di dieci anni, pieno dei piccoli-grandi fatti di ogni giorno vissuti insieme con le figlie di Luca e Clelia: “Allora io e Marta diventiamo quasi gemelle. Ci piace fare tutto uguale: scrivere segreti, ascoltare musica, fare acrobazie. Quasi sempre dormiamo nello stesso letto, il mio, abbracciate”. Si legge d’un fiato, con partecipazione, divertimento ed ammirazione per la capacità generosa dei singoli di inventare soluzioni che superino le lentezze della comunità. Inevitabile chiedersi, chiudendo il libro, che cosa ne sia stato in seguito di Sunita e della sua famiglia: la ragazzina è cresciuta, scanzonata come sempre dice l’autore, ha continuato a frequentare la scuola quando le è stato possibile, finché in seguito allo sgombero definitivo del campo nell’ottobre 2015 coloro che avevano a cuore questa situazione hanno creato l’associazione “Articolo 34” – alla quale vanno i diritti del libro – per sostenere e rendere concreto il diritto allo studio di Sunita e di tutti i bambini come lei.
(Anna Pedemonte su Andersen 337 – novembre 2016)

Cristiana Pezzetta, Sorelle di carta, Mammeonline
cover_sorelleCostanza ha quattordici anni, è in guerra con la scuola e non sembra avere alcun margine di scelta per quello
che riguarda vita, uscite, progetti. Neanche quest’estate l’avrà vinta: di andare al mare con Caterina non se ne parla nemmeno, papà ha in mente tutt’altro programma. È così che, dopo gli innumerevoli campi estivi con cui è stata sistemata per tutta la sua vita, questa volta Costanza è costretta a seguire il padre archeologo in Siria. Inutile replicare, la ragazza deve congedarsi dalle sue amiche e da Luca, con cui ha appena inizianto ad uscire. In men che non si dica, si ritrova in un luogo ben lontano dai confort di un albergo: i vestiti che indossa non sono appropriati, tutti parlano una lingua sconosciuta, ci si mette anche l’antipatica collega del padre a farle notare quanto in ogni situazione risulti inopportuna. Per fortuna però, Costanza non è sola: a venirle in soccorso c’è Aima, coetanea che lavora con la sua famiglia nella residenza degli archeologi. E che si dia il caso stia cercando di imparare l’italiano. Sarà lei a introdurla progressivamente alle abitudini e consuetudini della casa e del suo paese, in un confronto tra le due civiltà, ma anche tra le due adolescenze, con tutti i sogni e i progetti che si portano dietro. All’orizzonte, però, si avvicinano nefaste le prime avvisaglie della guerra civile. La preoccupazione è visibile nello sguardo di Aima come in quello di Ahmad, suo fratello maggiore, e non è facile tenere testa alla tensione. Le mura di casa diventano sempre più strette, ma le due ragazze riescono di soppiatto ad uscire, per godere, fosse anche l’ultima volta, della vista dalla cresta del tell, la collina degli scavi. Interessante e coinvolgente, il romanzo di Cristiana Pezzetta mette in luce senza retorica o intenti didascalici la vicenda siriana, quanto mai attuale, che si delinea parallela all’evolversi dell’amicizia tra le ragazze. Il senso di impotenza di Costanza, l’impatto con una realtà così diversa, il sofferto ritorno a casa accompagnano e coinvolgono il lettore in questa storia di consapevolezza e dialogo.
(Martina Russo su Andersen 319 – gennaio/febbraio 2016)

Serena Piazza, Rapsody in blue, Rueballu
rapsody in blueNon ci sono luoghi più deserti delle metropoli. Herman e Rosie lo sanno bene. Immersi nella stordente quotidianità newyorkese adorano la miriade di possibilità che la città riserva, ma, seduti ognun per sé al tavolino di un bistrot, non possono non sentirsi infinitamente soli. Eppure ogni giorno hanno a che fare con una moltitudine di persone: Herman lavora in un call center affollatissimo, con claustrofobiche postazioni da cui “vendere cose”; Rosie, invece, lava immense pile di piatti, in un ristorante raffinato dei quartieri alti. Finito il lavoro, però, ecco che scopriamo cosa accomuna coccodrillo e capra: Rosie inforca la bici e raggiunge un piccolo jazz club in centro, dove canta sulle note di un orso batterista e un pinguino violoncellista. Herman sale sul tetto di casa – che guarda caso è proprio affianco a quella di Rosie – e con l’oboe intona una melodia notturna. Una motivetto che rimane in testa e che contrappunta ogni spostamento dei due protagonisti, in una geografia musicale che li porta in giro per tutta la città. Gus Gordon si diverte a intrecciare la storia di un incontro annunciato, giocando con le molte facce di un città che, come recita la massima di Mark Twain nel frontespizio, può essere “una cattedrale della solitudine”. Gioca con le forme, mescolando il tratto nervoso di matite e pastelli con piccoli dettagli in collage, tra fotografie, cartoline e ritagli di mappe e giornali. Su tutto vince la musica, unificante rifugio dell’anima e della (bestiale, in questo caso) umanità tutta; par quasi di sentirla, ideale sottofondo blues al progredire di una storia che, da ordinaria si fa speciale. Elogio al potere del caso, o meglio, del destino, l’albo ha vinto in patria il premio per il miglior albo illustrato 2013 assegnato dal Children’s Book Council of Australia.
Ma se parliamo di sinfonia di una città, e nel dettaglio della Grande Mela, il pensiero va subito a Gershwin e alla sua “Rapsodia in blu”, protagonista, nell’elegante taccuino rueBallu, della storia scritta da Serena Piazza e illustrata, in cromatica coerenza, da Nadia Camparotta. Si capisce subito, anche se poi lo si legge in appendice al racconto, che le autrici hanno lavorato con le note del compositore in sottofondo, anzi, in primo piano! Cadenze, intervalli, andamenti: parole e suoni sembrano coincidere, di corsa dietro George Gershwin, deciso a dire la sua sull’annuncio inaspettato della prima di una sua nuova sinfonia, che ancora però è tutt’alto che pronta. Lo seguiamo giù per le scale a rotta di collo, in mezzo alla strada, poi d’improvviso, la visione: cappotto bianco, capelli scuri, labbra di rosa. E poi di nuovo, di corsa lungo i marciapiedi, gli scalini, fino al colpo di scena in coda. Si diceva delle illustrazioni, sapientemente virate sui toni del blu e del verde e che, con pennellate morbide e controllate restituiscono suggestivi quadretti: dall’angolo della stanza di Gershwin, col pianoforte e lo specchio che lo cattura intento a guardare fuori dalla finestra; all’ombra sulla strada dell’uomo e della “bambola” misteriosa, ai marciapiedi pieni di gente.
Ma il nostro compositore frettoloso non è l’unico a doversi preparare in vista della “prima”. Ritroviamo la metropoli e la musica anche nell’albo di Karla Kuskin e Marc Simont edito nel 1982 da HarperCollins e ora giunto in Italia per i tipi di Terre di mezzo. Protagonisti, in questo caso, sono i centocinque componenti dell’orchestra filarmonica: lo capiamo dalla copertina e lo capiremo alla fine del libro, ma prima di arrivarci li seguiamo pagina dopo pagina nella complessa vestizione e adeguata preparazione: dalla doccia, ai calzini, fino alla giacca. Ogni doppia pagina ospita i musicisti, intenti, ognuno nella propria abitazione, a predisporsi alla serata: “Sono novantadue uomini e tredici donne. In molti fanno la doccia. Pochi il bagno. Due uomini e tre donne usano il bagnoschiuma, e un uomo legge nella vasca mentre il gatto lo osserva. Una donna canta in mezzo alle bolle” e via così, enumerando quasi “statisticamente” azioni e scelte. Li vediamo alle prese con la maglia della salute, con le calze spaiate, in attesa del bus o in metropolitana. Simont usa lo spazio con grande sapienza, servendosi di un preciso tratto di pertinente ironia, che nulla toglie all’arioso fondo bianco. La narrazione converge a teatro, ovviamente, dove tutto è pronto per trasformare la lunga preparazione in uno spettacolo difficile da dimenticare.
(Martina Russo su Andersen 330 – marzo 2016)

[Queste recensioni sono state pubblicate sulle pagine della rivista Andersen, mensile italiano di letteratura per bambini e ragazzi. Su ogni numero rubriche di segnalazione delle più interessanti novità editoriali, storie, percorsi e nuove tendenze della letteratura, dell’illustrazione e della cultura per l’infanzia, con un taglio giornalistico che invita alla riflessione e all’approfondimento anche un pubblico non esclusivamente di settore. La rivista è distribuita su abbonamento, qui informazioni (e promozioni!).]

 

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