L’articolo di questo mese, pubblicato su Andersen n. 417, è un’intervista di Giulia D’Ambrosio all’artista francese. Tra i suoi libri, in Italia sono stati pubblicati da Orecchio Acerbo: Padron Gatto, Ballata, Vacanze, Stagioni, Immaginario. Per sostenere Andersen, acquista una copia della rivista o sottoscrivi un abbonamento!
Parte del tuo tempo è dedicata alla realizzazione di libri per l’infanzia. Cosa ne pensi di questa realtà? Pensi che gli albi illustrati possano rappresentare una forma espressiva privilegiata per entrare in dialogo con i bambini?
Penso che gli albi illustrati siano una forma d’espressione in grado di toccare la sensibilità dei bambini e di arricchire la loro esperienza di crescita e sviluppo. La maggior parte dei libri che portiamo loro ha bisogno, almeno inizialmente, di una forma di mediazione che sia in grado di coinvolgerli nella lettura. Solitamente a svolgere questa funzione sono i genitori, ma anche gli insegnanti e i bibliotecari, o ancora i narratori, per esempio. Questa mediazione richiede spesso un certo impegno da parte di chi la svolge, e i bambini si mostrano spesso piuttosto ricettivi. Quindi si può certamente parlare di una forma di dialogo, credo.
Sapresti dirmi in una frase, perché hai deciso di scrivere libri per bambini? C’è qualcosa che lega questa tua decisione alla percezione che hai della serigrafia e della sua applicazione al mondo dell’infanzia?
Desideravo farlo e mi è stato permesso. All’inizio ho usato la serigrafia, che è relativamente facile da usare e mi dava la possibilità di stampare a colori e in grande formato, per l’autopubblicazione. Per motivi economici e pratici, mi sono poi gradualmente spostato verso un sistema semplificato di colori (blu, rosso, giallo, nero), la cui sovrapposizione mi permetteva di ottenerne altri (i colori secondari: verde, arancio, viola e marrone). Una delle particolarità della serigrafia è quella di produrre aree di colore molto dense e cariche di pigmento. I miei libricini erano molto vivaci, molto colorati. È stato un mio amico giornalista a consigliarmi di dedicarmi all’editoria per ragazzi. Senza di lui non ci avrei mai pensato.
Attraverso il tuo modo di narrare, riesci ad unire organicamente mondi molto distanti fra loro o che solitamente vengono definiti come tali: l’illustrazione per l’infanzia, il fumetto, la stampa. Cosa è dunque per te il racconto? Quali sono i punti che contraddistinguono e caratterizzano i tre elementi sopracitati e in che modo pensi possano rispettivamente contribuire alla creazione della narrazione stessa?
Si tratta di questioni molto complesse. All’inizio di un progetto devo contemporaneamente, o meglio in parallelo, definirne il formato, la materialità e parte del suo quadro estetico. La scelta dei materiali, il formato, etc., sono già di per sé elementi della narrazione. E c’è una storia del libro e dell’albo illustrato che non posso completamente ignorare, anche se la mia conoscenza in merito non è fenomenale.
Nell’impulso iniziale, c’è il profondo desiderio di veder esistere un oggetto virtuale, di concretizzarlo, oltre a quello di dire o raccontare qualcosa. Le due cose sono assolutamente collegate. Parlare di qualcosa richiede una forma; pertanto è necessario definirla. I mezzi per farlo sono circostanziali. Devo provare diverse forme all’interno di quella forma e vedere con la sperimentazione cosa sembra funzionare e cosa invece no. Se la forma di partenza è quella giusta, allora la sotto-narrazione, il soggetto del libro per così dire, troverà alla fine il suo posto e il suo modo di funzionare in essa. Le immagini, il testo e la tipografia devono essere a servizio dell’oggetto libro, che non deve essere necessariamente complicato, ma solido, affidabile e piacevole. Insisto su questo aspetto: è il libro che le mie immagini devono servire, e non il contrario.
Hai iniziato con la serigrafia, che ancora oggi sembra influenzare fortemente il tuo processo creativo nonostante le tavole che realizzi siano essenzialmente una sorta di collage digitali. Cosa ti ha portato a decidere di lasciare la serigrafia per poi cercare di recuperarla, in maniera diversa, attraverso l’uso di strumenti digitali? Quali caratteristiche di questa tecnica tradizionale pensi sia importante preservare in una narrazione pensata attraverso di essa, ma che nella sua realizzazione poi non ne fa uso?
Più che la serigrafia, è la stampa su carta in generale che continua ad affascinarmi. È l’azione di trasferire l’inchiostro sulla carta, l’effetto che questo contatto produce. Ci sono tecniche di stampa che producono segni ed effetti immediatamente riconoscibili: la xilografia, la linoleografia, l’acquaforte, la litografia, etc. Altre, se non le si ha tra le mani, non producono alcun effetto specifico, o quasi: la stampa offset o la serigrafia, appunto. Esse si notano e sono significative soltanto nei loro difetti, e questo è interessante. Sebbene la serigrafia sia inconfondibile in termini di carico d’inchiostro, una foto della stessa serigrafia non ne permetterebbe l’identificazione come tale; potrebbe essere qualsiasi altra cosa. Mi sono formato con la stampa tradizionale e quando sono passato agli strumenti digitali ho applicato la stessa logica produttiva, quella di separare i colori in livelli autonomi, che tuttavia lavorano insieme per restituire o comporre un’immagine. Ok, ma cosa succede dopo? Si stampa in offset e tutto si appiattisce di nuovo. Quindi a meno che non lavori in tinte piatte, posso risparmiarmi questo lavoro ormai superfluo (anche se non del tutto). Partendo dalle mie osservazioni e dalla mia esperienza, ho dunque cercato di individuare gli unici fenomeni percepibili di queste tecniche: i loro difetti. Il rapporto con la narrazione è quello descritto sopra. La percezione delle immagini, con i loro difetti, deve essere quella che esse sono appunto immagini, e solo immagini; quindi oggetti dotati di una loro fisicità e materialità. Mi piace che esista questo tipo di rapporto con il lettore: la possibilità per lui non solo di leggere una storia, ma anche di prenderla in mano e vedere finalmente ciò che voglio mostrargli, cioè l’effetto dell’inchiostro sulla carta. Anche questo fa parte del dialogo di cui si parlava all’inizio. Cerco di suscitare nel lettore il gusto per una forma di materialità.
Per quanto riguarda la tecnica, come ottieni le texture che vai ad applicare ai tuoi collage digitali? In quanto serigrafo, il tuo approccio consiste nella sovrapposizione di più livelli piuttosto che nella giustapposizione di diversi elementi? Utilizzi ancora strumenti di stampa tradizionale o tutto viene fatto digitalmente?
Nelle mie tinte piatte, integro materiali di origine diversa che acquisisco attraverso lo scanner. L’obiettivo principale è quello di stravolgere aree che altrimenti sarebbero molto povere. Bisogna dosarlo un po’, perché la tinta unita è potente ma anche visivamente e sensibilmente soddisfacente. Si tratta di provare, non riesco a spiegarlo. Lo stesso vale per la composizione delle immagini. Alcuni oggetti richiedono un’esecuzione molto precisa, altri possono essere costruiti in maniera più intuitiva, giocando con i livelli. Io non stampo più ormai da molto tempo, ma lavoro con gli stampatori. Stare a contatto con loro e con la loro esperienza è per me sempre molto stimolante. Continuo ad imparare dal loro lavoro.
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