L’intervista di Anselmo Roveda a Carme Solé Vendrell, che firma la copertina di Andersen n.396, è pubblicata sulla rivista accanto a un approfondimento di Walter Fochesato sul lavoro della grande illustratrice catalana. Questo autunno arrivano in Italia due suoi albi: La crociata dei bambini (poesia di Bertolt Brecht, Orecchio Acerbo) e Fab il mostro giallo (Kalandraka). Sostieni la rivista Andersen e abbonati ora!
Come è avvenuto l’incontro, come artista, con l’editoria per l’infanzia? Quando e perché hai iniziato a illustrare per bambini?
Quando avevo due anni, mia madre si ammalò e ci lasciò quando ne avevo nove. Diceva sempre che le sarebbe piaciuto se avessi imparato a disegnare, a quanto pare aveva intravisto il mio talento artistico. Sono sicura che se mia madre non fosse morta sarei diventata un’attrice. Il teatro fa parte della mia vita fin dalla nascita ed è la mia grande passione, ma sono felice di quello che poi ho scelto e fatto, perché mi rendo conto così di aver potuto raggiungere tanti e tanti bambini, ovunque.
Di fatto ho illustrato quasi per caso. Ho studiato pittura alla scuola delle arti e dei mestieri, l’Escola Massana di Barcellona, e il mio insegnante Pau Macià mi ha presentata a Amèlia Benet, una scrittrice che stava cercando qualcuno disposto e capace a illustrare i suoi libri. Con lei ho realizzato i miei primi quattro libri, pubblicati dall’Editorial Teide.
Cosa significa per te rivolgersi all’infanzia? Quali ritieni essere le peculiarità di un libro che avrà come lettori, prevalentemente, bambini e ragazzi?
L’infanzia è quanto di meglio abbia l’umanità e rivolgersi ai bambini è un onore e una grande responsabilità. Ho sempre avuto un rapporto immediato e molto bello con i bambini, forse perché non ho mai perso i contatti con la bambina che sono stata e che, quando ho perso mia madre, è rimasta intatta dentro di me. Forse è per questo che dipingo bambini che sono stati privati della loro infanzia e sono in grado di catturare il loro dolore nei miei dipinti. Quando mamma è morta, ho cercato spazi di solitudine, mi sono data un pizzicotto e ho detto “sto sognando e quando mi sveglio la mamma sarà ancora lì, o mai più mamma?” Il ‘mai più’ è sempre stato per me un motivo di ricerca del perché della vita.
Quando nel 2018 ho fatto una mostra antologica sulla mia carriera, mi sono resa conto di quanto il mio lavoro fosse stato importante nella vita di tante persone, di come i miei disegni avessero segnato tanti bambini e questo mi ha fatto capire di averlo fatto bene, perché il mio lavoro aveva raggiunto il posto più bello dell’infanzia. La sera prima, mentre allestivamo la mostra, il tecnico delle luci mi ha detto “sappi Carme, che sei stata il meglio della mia infanzia”. Mi ha confermato che valeva la pena aver lottato tanto e aver fatto quel che avevo fatto.
Credo che i libri per bambini debbano offrire risposte alle domande che si pongono i più piccoli. Dovrebbero suggerire e non essere mai scontati, ovvi. La storia non deve parlare esplicitamente di ciò che vuole dire, perché altrimenti è solo pedagogia da quattro soldi.
Grazie al tuo percorso, iniziato a fine anni ‘60, sei testimone della grande evoluzione internazionale avvenuta nella letteratura e nell’illustrazione per l’infanzia negli ultimi cinquanta anni. Com’è cambiato, secondo te, il ruolo e la percezione del libro per l’infanzia in questi decenni?
Questa è una domanda importante, credo con tutta sincerità che all’inizio fosse molto chiaro dove si voleva andare, negli anni ‘60 e ‘70 si facevano libri meravigliosi che sono diventati dei classici anche se in molti casi sono già andati perduti, messi fuori catalogo dagli editori.
I commerciali, i professionisti addetti alle vendite, hanno sempre più importanza all’interno delle case editrici, e pur di vendere si limitano a spingere ciò che è più semplice e facile, facendo scomparire opere che dovrebbero invece essere in tutte le librerie; poiché quei libri sono, o dovrebbero essere, dei punti di riferimento, ci parlano in modo poetico, con grande qualità letteraria e con magnifiche illustrazioni, che non invecchiano mai.
Negli anni ‘80 arrivò il boom degli album illustrati e così, in mezzo a tanta proliferazione, la qualità si è andata a perdere, a confondere. Sono molto critica in questo senso.
Oggi l’immagine digitale, da un lato, e le scuole di illustrazione, dall’altro, hanno reso difficile distinguere nella maggior parte dei libri chi ne sia l’illustratore o l’illustratrice; ci sono però validissime eccezioni che generalmente non sono quelle che riscuotono maggior successo.
Negli anni ‘80 del Novecento hai iniziato anche a realizzare opere come autrice totale. Come è nata l’esigenza? Cosa rappresenta per te la possibilità di realizzare opere complete?
È stato Guillermo Mordillo a dirmi, a una Fiera di Bologna, “perché non fai libri tutti tuoi, semmai anche senza parole?” Dopo quella fiera, sono stata a Venezia e ho visto un bambino dall’altra parte di un canale che portava un mazzo di fiori sotto un enorme ombrello. Voleva entrare in un portone e non sapeva come riuscirci. Non ho visto il suo volto e quando sono tornata a casa ho realizzato la storia del libro The boy with the umbrella, poi pubblicato da Blackie and Son. L’avevo realizzato senza parole, ma l’editore mi ha chiesto di scrivere un breve testo perché in quel modo, a suo avviso, i libri erano più facili da vendere. E così dopo quel primo libro, quando ho avuto qualcosa da raccontare, l’ho scritta e illustrata.
Negli stessi anni hai affiancato all’illustrazione editoriale anche l’attività artistica e pittorica, sempre con uno sguardo speciale all’infanzia. Dal 2014 con il progetto WHY?, ci racconti?
Nel 1991 ho illustrato un libro molto importante, che ha cambiato la mia carriera in molti sensi: Les enfants de la mer di Jaume Escala, pubblicato da Syros Alternative, è stato presentato ed esposto al Centre Pompidou di Parigi e ha ricevuto un Prix Octogone dalla critica francese che ha ritenuto quel libro un punto di svolta nell’albo illustrato per il modo in cui ha posto i problemi e le difficoltà dei bambini. Els nens del mar, il suo titolo catalano, parla dei bambini di strada e della loro mancanza di accesso alla cultura. Questo libro mi ha fatto venire voglia di dipingere i volti dei bambini gitani che avevo disegnato.
Poi è stata la volta de La crociata dei bambini di Bertold Brecht. Per illustrare questa suggestiva poesia, mi sono documentata con libri di fotografia di guerra e così è nata in me la necessità di dipingere i bambini vittime delle guerre e i bambini i cui diritti non sono rispettati.
Un giorno lo stesso Jaume Escala mi ha detto “bisogna portare questi bambini in piazza” ed è così che un gruppo di volti di bambini è apparso sui balconi di Barcellona, senza una parola, ma molto presto Jaume mi ha dato la parola: “WHY?” E con questa parola, la campagna ha avuto una grande risonanza e ha posto un interrogativo, una domanda, alla gente della strada.
Nella mostra del 2018 abbiamo realizzato una grande installazione con 60 di quei volti che erano stati esposti per strada, sporchi, sventrati e restaurati in modo tale che i segni del passare del tempo diventassero evidenti, esprimendo così come vengono costantemente violati i diritti dei bambini. Attualmente la campagna continua e stiamo aspettando che cominci a camminare anche in Italia, sta nascendo un bel progetto anche lì.
Concludendo: sei fieramente catalana, con il tuo lavoro hai portato prestigio alla Catalogna e alla Spagna, sei una delle grande autrici internazionali e coltivi collaborazioni e amicizie in ogni parte del mondo. Una cosmopolita, a tutti gli effetti. Cos’è allora per te l’identità? Quanto ha a che fare con la lingua? Che relazione c’è tra particolare (valorizzazione delle diverse tradizione culturali e linguistiche) e universale (conoscenza dell’altro e accesso al mondo)?
Più che orgoglio, per me è un sentimento e una convinzione; perché per me la lingua è identità, ciò che ci viene donato fin dall’infanzia, ciò che determina il nostro modo di pensare, una maniera di vedere il mondo, né migliore né peggiore di un altro; ed ecco perché quando siamo privati della libertà di parlare la nostra lingua madre, di impararla a scuola e di utilizzarla in qualsivoglia manifestazione, ciò ti segna per sempre, ti rende evidente che questa è un’ingiustizia. Questa condizione la vivo da quando sono nata, per questo mi batto affinché la lingua catalana non si perda o si deteriori. Purtroppo so che è una battaglia persa, questa lingua così ricca e bella andrà perduta.
Le lingue minoritarie sono in pericolo, nei fatti muoiono ogni giorno in giro per il mondo. Noi catalani abbiamo la fortuna di avere molta cultura popolare e scritta, fin dai tempi antichi, e anche la fortuna di avere, come popolo, una caparbietà tale da averla mantenuta viva nel corso dei secoli.
Una lingua è una ricchezza, non dovrebbe mai imporsi su un’altra, ma ci sono lingue che ovunque vadano radono al suolo, dominano e sterminano perché sentono di avere una sorta di ius primae noctis; e il castigliano (spagnolo) e l’inglese ne sono esempio innegabile.
Una volta Erri De Luca, interrogato sulla differenza tra lo spagnolo e l’italiano, ha detto: “Lo spagnolo è una lingua che si impone. L’italiano, invece, è una lingua che si costruisce come un fiume che, ovunque passa, porta con sé un po’ di ciò che incontra ed è per questo che ognuno la sente propria”.
Maurice Sendak diceva che “per essere universale devi essere locale, devi parlare di ciò che conosci”, forse questo è uno dei motivi che hanno reso il mio lavoro interessante ovunque; e forse anche la mia ossessione a essere onesta e a non vendermi. Mi sono rifiutata di illustrare libri anche molto ben pagati perché non pensavo che la storia ne valesse la pena.
Un momento molto importante per me è arrivato dopo aver realizzato il mio libro più noto in giro per il mondo (ma mai pubblicato in italiano): Jon’s Moon (Blackie and Son, 1981), in catalano La Lluna d’en Joan, di cui sono anche autrice del testo. Editori con i quali desideravo lavorare mi hanno offerto di farlo, ma a condizione che io continuassi a illustrare come avevo fatto in questa storia. E allora, con grande tristezza, ho detto loro di no, che non potevo, che quella storia rappresentava la fine di una fase e che dunque, se avessi illustrato nello stesso modo sarei morta come artista e inoltre mi sarei davvero molto annoiata.
Ora sto lavorando alla revisione di questa storia, farò un volume con tre capitoli, si intitolerà Mitama i la cançó del mar. Joan, in un certo senso, ero io. Ha fatto quello che io non avrei mai potuto fare, salvare mia madre.
Mitama (Maria Carme) è il modo in cui dicevo il mio nome quando ero molto piccola e non sapevo ancora pronunciarlo. L’ho scoperto leggendo una lettera della mamma dal sanatorio in cui diceva: “Sono felice perché vedo che Mitama torna a sorridere”. Il suono di quella parola mi ha scosso e ho capito che dovevo fare questo libro, a cui sto lavorando adesso. Ora è il momento di farlo.
Ho avuto la fortuna da illustrare bellissime storie di grandi autori: Mercè Rodoreda, Salvador Espriu, Pere Calders, Miquel Martí i Pol, David McKee (con due pseudonimi)… e Gabriel García Márquez; sono l’unica persona a cui abbia permesso in vita di illustrare i suoi libri, diceva “L’ho scritto perché Carme lo faccia vedere”; ecco, “far vedere’, non si può sintetizzare meglio cosa è l’illustrazione.