di Andrea Rauch – Le avventure di Alice cominciano nel 1862, in un “pomeriggio dorato” (golden afternoon) di luglio, quando Charles Lutwidge Dodgson, non ancora Lewis Carroll, conduce, insieme all’amico Robinson Duckworth, del Trinity College di Oxford, Lorina, Alice e Edith, le tre figlie di Harry Liddell, rettore decano del Christ Church, a fare una gita in barca sul Tamigi. Prendono il tè, non c’era da dubitarne, e come racconterà lo stesso Dodgson qualche tempo dopo “nella stessa occasione ho raccontato loro la fiaba delle avventure di Alice sotto terra…”
Carroll, alto e magro, con una leggera forma di balbuzie, timido e impacciato, “gradevolmente asimmetrico”, fu sempre attratto dalle bambine, ma, a quanto è dato sapere, le ragioni del suo innamoramento furono sempre ‘convenienti’ e idealizzate. Nessun sospetto di pedofilia quindi. Omnia munda mundis, come avrebbe detto il Manzoni.
Alice Liddell fu, forse, la sua preferita e, certamente, fu l’ispiratrice prima delle avventure nel paese delle meraviglie. Racconta il Reverendo Duckworth, compagno in quella gita famosa: “Io remavo a poppa e lui a prua, quando le tre signorine Liddell furono le nostre passeggere e la storia fu composta e narrata sopra la mia spalla a beneficio di Alice Liddell, che fungeva da timoniere del nostro equipaggio. Ricordo che mi voltai e dissi: «Dodgson, le stai improvvisando queste fantasticherie?» E lui rispose: «Sì, invento tutto via via». Ricordo anche come, quando riportammo le bambine al Decanato, Alice disse dandoci la buonanotte: «Oh, signor Dodgson, come vorrei che voi mi scriveste le avventure di Alice». Lui disse che ci avrebbe provato, e in seguito mi raccontò di avere passato quasi tutta la nottata a tavolino, ad affidare a un libro manoscritto quanto ricordava delle stravaganze con cui aveva ravvivato il pomeriggio. Vi aggiunse illustrazioni di suo pugno, e il manoscritto, versato in bella calligrafia e corredato con le illustrazioni dello stesso Carroll (“E così, per il piacere di una bambina che amavo – non ricordo nessun altro motivo – stesi il manoscritto e aggiunsi rozzi disegni di mia mano, disegni che si ribellavano contro ogni legge di Anatomia o d’Arte…”), fu donato il Natale successivo a Alice Liddell e alla sua famiglia.
IL PRIMO ILLUSTRATORE DI ALICE
Nel 1863 Carroll sottopone la storia di Alice’s Adventures under ground all’editore MacMillan che decide di pubblicare il testo ampliato, di darle titolo Alice’s Adventures in Wonderland e di corredare il libro con i disegni di un glorioso illustratore del Punch, Sir John Tenniel.
La storia della fortuna di Alice ha inizio in questo momento, anche se il rapporto tra Carroll e Tenniel fu sempre problematico: “Il signor Tenniel è il solo artista che abbia disegnato per me, ad essersi risolutamente rifiutato di servirsi di un modello e ad aver dichiarato di non aver più bisogno di un modello di quanto io abbia bisogno di una tavola pitagorica per risolvere un problema matematico. Io mi arrischio a pensare che abbia commesso un errore e che, per la mancanza di un modello molti dei suoi ritratti di Alice siano assolutamente sproporzionati; la testa decisamente troppo grossa e i piedi decisamente troppo piccoli.”
La differenza tra Carroll e Tenniel, di stile e tecnica ma anche di ispirazione, salta subito agli occhi. L’Alice di Tenniel è composta e definita, quella di Carroll nervosa e inquieta: il tratto, nei disegni di Carroll, sembra muoversi sotto la penna dell’autore. La bambina appare, in alcune illustrazioni, crescere sotto i nostri occhi, già preadolescente, inquieta anche lei come le illustrazioni. Nei disegni di Lewis Carroll vediamo la bambina e indoviniamo la donna.
DA TENNIELL A RACKHAM
Ripercorrendo, per grandi linee, la storia dell’illustrazione di Alice il nome di Tenniel si affaccia in ogni pagina in maniera quasi arrogante. La sua fu quasi la ‘versione autentica’ del personaggio, lezione ineludibile per quanti si sarebbero avvicinati, nei decenni successivi, a Lewis Carroll. Anche Walt Disney, nel 1951, preparando il suo celebre cartone animato, fece ampiamente uso dell’immaginario codificato dal disegnatore vittoriano.
Persino l’altra gloria dell’illustrazione inglese, Arthur Rackham, pur disegnando una versione mirabile del libro (1907), non riuscì a liberarsi dell’ombra del suo predecessore.
Il mondo neogotico particolarissimo di Rackham, fatto di segni di penna nervosi e di colori delicati al limite del monocromatismo, è comunque lontano dalla rigida austerità del suo predecessore (“Your delightful Alice -scrisse ad esempio H. R. Robertson – is alive and makes by contrast Tenniel’s Alice look a stiff wooden puppet.”), sembra riallacciarsi dierettamente a Carroll e investe Alice con una sensibilità già adolescenziale e quasi impudica. Questo, che è il grande pregio dell’opera di Rackham è però anche il suo limite. Alice non è più quella bimbetta petulante e antipatica, ma in fondo rassicurante, che Tenniel aveva affidato alle stampe. L’Alice di Rackham è una figura panica, sempre in contatto stretto, quasi simbiotico, con gli altri elementi della storia e dell’illustrazione, animali, foglie, funghi, alberi contorti, carte da gioco o altri oggetti di scena.
ALICE IN CARNABY STREET
La storia dell’illustrazione di Alice è piena di nomi di illustratori e di notazioni eccellenti, da Charles Robinson a Philip Gouch, da Blanche McManus a Willy Pogany, fino a toccare Max Ernst e Salvador Dalì. Un posto di eccellenza lo merita, comunque Ralph Steadman che, commentando i suoi famosi disegni (usciti in Italia nel 1967 in un sontuoso in-folio edito da Milano Libri, oggi purtroppo pressoché introvabile), precisa che l’idea originale da cui erano nate le tavole s’era andata via via modificando e precisando mentre il lavoro prendeva corpo, anche se il punto di partenza stilistico e artistico era del tutto definito e la chiave di lettura che l’illustratore offriva al lettore, chiarissima.
Si era nel 1967, abbiamo detto, e non v’è chi non veda, nelle tavole del grande artista inglese, l’eco della pop e op art, sopratutto, in quel modulare geometrico e rigoroso delle tavole, nelle campiture quadrettate in bianco e nero. Non solo, perché il segno della penna di Steadman si intreccia e si complica in tratteggi complessi che, se nella parte concettuale richiamano la grande lezione di Steinberg, da questa se ne allontanano perché la linea non cede mai alla semplicità assoluta ma si arrampica in virtuosismi grafici ai limiti dell’astrazione.
Poi, sotto traccia, si trova in Alice anche una vena ironica mal dissimulata, una lettura moderna del testo e dei suoi personaggi. Alice è una ragazzetta pop, fan magari dei Beatles o dei Rolling Stones, che si veste in Carnaby Street, modernamente scarmigliata, dai tratti sghembi e assai poco vittoriani, inquieta e nervosa.
ALICE A POIS
Se Ralph Steadman aveva ‘adattato’ la sua arte al libro, piegando la sua sensibilità moderna alle ragioni del racconto, la grande Yayoi Kusama, che ha recentemente illustrato un’edizione di Alice uscita in Italia nel 2013 per Orecchio Acerbo, ci sembra che proceda in senso inverso adattando il racconto alle ragioni della sua arte. Le pagine si piegano e si contorcono tra palle e palline colorate, texture, pattern, astrazioni e figure che ci fanno venire in mente, e non solo, la pittura aborigena australiana e i deliri cromatici della psichedelia. Invano si ricercherebbe nelle pagine di questa Alice una delle tante logiche che sono alla base del mestiere di illustratore. Le tavole non accompagnano il testo né cercano di precisarlo; né d’altra parte ci offrono una lettura, come dire, di ‘secondo grado’, interpretativa. Si muovono libere, galleggianti tra parole, alludono senza mai precisare, definire, chiarire. Appaiono e scompaiono, concrete e diafane come il sorriso del gatto del Cheshire.
Il mondo folle di Yayoi Kusama non tollera punti di contatto logici, si offre e si allontana ma, proprio per questa totale alterità, si presta a paradigma assoluto del mondo di Alice dove, è ovvio, “…sono tutti matti. Io sono matto, tu sei matta…”. Come si capisce bene, nell’universo della ‘follia’, anche in quella grafica, non sono necessarie giustificazioni se non quelle che presiedono al gioco, al divertimento, alla libera espressione delle idee, anche delle più pazze, anche delle più stravaganti.
Ma Yayoi Kusama, alla fine del libro, in un’ultima pagina illuminante, dichiara di essere lei “la moderna Alice nel Paese delle Meraviglie”. Anche lei, diciamo noi, persa e vagante in un suo fantastico mondo di colori, di forme, di illusioni, di vera razionalità e di vera follia, di veglia e di sogno, un mondo di detti e contraddetti, che da queste strambe contraddizioni prende forma e vita, sostanza e mistero.
La tirannia dello spazio non ci permette di soffermarci come dovremmo su altre eccellenze quali la tradizionale e accattivante versione di Libico Maraja, 1953, o quelle di Helen Oxenbury e Lisbeth Zweger, entrambe 1999.
O ancora, ma di questo si dice qui a fianco, a quella di Luzzati. Due parole però vogliamo ancora dedicarle ad un libro di Raphaël Urwiller, Jabberwocky, la poesiola nonsense che Alice recita e che è un vero e proprio inferno per il traduttore. Perché le parole non sono comuni e il loro senso ci appare tosto e incomprensibile. Però, come sosteneva Alice, “… ci mette in testa molte idee, anche se non riusciamo a capirle appieno”.
Ma forse sta proprio qui la grande forza, folle e visionaria, di Alice e dei suoi illustratori.
[Questo articolo è stato pubblicato su Andersen n.324 – luglio/agosto 2015. Scopri il resto del numero qui]