Il 20 novembre è la Giornata Mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, appuntamento nato per commemorare la Convenzione Internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Tutti i paesi al mondo hanno ratificato questa convenzione, fatta eccezione per Stati Uniti e Somalia, lascio da parte eventuali riflessioni in merito. In occasione di una giornata identificata come mondiale queste righe vogliono essere un’immaginaria prosecuzione di una riflessione iniziata su queste pagine un anno fa, parlando dell’uscita del libro fotografico di James Mollison Dove dormono i bambini pubblicato per Contrasto. Il libro di Mollison si soffermava sui luoghi deputati al sonno dei bambini, con un ricco bagaglio fotografico mondiale in merito, ed era quindi una non esplicitata riflessione sullo spazio e sulla sua valenza pratica, con una forte portata simbolica in termini di relazioni e ruoli. A riprenderlo in mano ora potrebbe però ben prestarsi a divenire strumento per osservare molti dei punti della Convenzione: dal diritto a essere protetti, al riposo, al diritto di vivere in un luogo che ci identifichi.
A ideale continuazione di questo discorso sui luoghi e i modi di intendere le infanzie nel mondo ecco una proposta di Feltrinelli, nella collana “Real Cinema”: Bebè. Tutti amiamo i bambini di Thomas Balbes. Il sottotitolo all’apparenza stucchevole sottolinea l’idea cardine con cui è stato girato questo documentario, vale a dire che, a qualsiasi latitudine e in qualunque gruppo un bambino cresca, il fattore più importante per il suo sviluppo è comunque l’amore che lo circonda. Il filmato è praticamente senza dialoghi; un racconto per immagini – il più delle volte a camera fissa – del primo anno di vita di quattro bambini: Ponijao in Namibia, Bayarjagal in Mongolia, Mari a Tokyo e Hattie a San Francisco. Un documentario fatto di assonanze e differenze, montato in un gioco di rimandi fra una cultura e l’altra, fra diversi gruppi familiari, dalla famiglia mononucleare a quella allargata o a quella pluriparentale ma di un unico sesso, come nel caso di Ponijao che cresce in un gruppo di donne e bambini.
Al centro di tutto le scoperte fatte dai bambini, che inevitabilmente dipendono dalle forme culturali della dimensione in cui crescono. Ad esempio il movimento: un bambino contenuto in un box ha una mobilità differente da uno tenuto stretto in fasce su un letto, o da uno lasciato senza barriere e nudo sulla terra. Geniale è l’intuizione del rapporto con la terra stessa, con la polvere: dal bambino che vi gioca, la mangia e appartiene ad un gruppo che la usa come unguento o protezione, al bambino continuamente alzato da un tappeto perfettamente lindo; o dell’interazione con gli animali, come sono visti dai bambini, come questi si arrischino o si misurino nell’avvicinarsi, e come anche l’animale interagisca con loro in relazione alle regole culturali di quel gruppo umano. E, infine, le relazioni con le persone che si occupano della loro crescita e con il gruppo dei pari (fratelli, cugini, altri bambini) e l’individuazione o meno di luoghi di incontro in linea con le regole sociali.
Non a caso, Feltrinelli allega un agile volume intitolato Figli del Mondo, curato da Emilia Bandel, ricco di spunti interessanti, dalla storia della visione dello sviluppo e dell’accudimento del bambino fino ai molti possibili approcci di confronto culturale. Brevi contributi che aprono la discussione sulla necessità di un confronto transculturale in merito di educazione e puerperio e sulla necessità di cominciare a parlare di puericulture.
Il diritto all’essere cresciuto, all’essere accudito, amato, riconosciuto come persona e – per riprendere una frase di Danilo Dolci che mi è cara – “ad essere sognato”. Esce al cinema in questo autunno uno straordinario documentario di Pascal Plisson intitolato semplicemente Vado a scuola. Anche qui le storie sono di quattro bambini, che devono percorrere distanze enormi per arrivare a scuola. Questi bambini sanno di essere sognati, hanno qualcuno che chiede loro, a qualsiasi latitudine siano, di raccontare cosa fanno a scuola, hanno interesse e fiducia da parte di chi li cresce, che è disposto a lasciarli andare in un mondo di pericoli pur di dar loro la possibilità di andare a scuola. Una possibilità davvero preziosa.
Jackson ha dieci anni e, mattina e sera, percorre con la sorella più piccola oltre quindici chilometri. Zahira di anni ne ha undici e una volta alla settimana attraversa con due amiche le montagne del Marocco, per 22 chilometri. Samuel, invece, ha tredici anni, è spastico e la sua carrozzina di ferro fatta con ruote di bicicletta e con una sedia di plastica viene spinta dai fratelli minori per quattro chilometri tutti i giorni; mentre Carlito, undici anni, e la sua sorellina, devono affrontare 25 chilometri a cavallo per arrivare in classe. Nel raccontare tutto questo lo sguardo si posa su grandi spazi, la camera si sposta con i passi dei bambini. Un documentario certo più costruito del film di Balbes, che mantiene però la fedeltà di quanto vuol restituire allo sguardo dello spettatore: quei chilometri sono percorsi dai bambini metro per metro, ora dopo ora. I rischi a cui vanno incontro sono reali e quella volontà di percorrerli ha una forza che non accoglie in sé solo (e già sarebbe moltissimo) una muta dichiarazione del diritto allo studio. Se qualche anno fa un film come Waiting for Superman di Davis Guggenheim raccontava come il sistema scolastico americano escludesse molti cittadini dall’accesso allo studio, questo film è invece una dichiarazione di vita, di futuro. Le gambe, le braccia, prima ancora degli sguardi, raccontano quel “riprendiamoci il futuro” che abbiamo sentito in questo autunno salire dalle piazze, qui con l’urgenza della vita di ogni giorno.
Ora Jackson sta studiando per diventare pilota, Zahira è cresciuta, e oltre a studiare da medico gira a piedi per i villaggi a convincere le famiglie a mandare a scuola le ragazze, Carlito vuole diventare veterinario. Samuel riesce quasi a camminare ed è convinto, ma ancor di più lo sono i suoi fratelli minori, che diventerà medico. Ciascuno cresce solo se sognato. Ed è un diritto.
[da ANDERSEN 307, novembre 2013. Scopri il resto del numero qui]