Incontro con Andrea Satta, voce dei Têtes de bois, pediatra e promotore del festival “Ci sarà una volta”.
È inizio di luglio a Santa Margherita, riviera ligure di levante. Il cielo è indeciso, nuvole e gocce di pioggia interrompono, a momenti, azzurro e sole. Sono i giorni del Premio Bindi e nella cittadina ligure vanno in scena i Têtes de bois, gruppo musicale italiano attivo da oltre venti anni, otto album e strampalati sensatissimi progetti sempre contrassegnati dalle passioni dei membri della band e dal comune impegno civile. È nato così, ad esempio, “Palco a pedali”: ecospettacolo nel quale l’elettricità per la strumentazione di scena, suoni e luci, è garantita da 128 spettatori ciclisti, volontari. La gente arriva, mette le proprie bici sui rulli… et voilà! Un’idea cullata e realizzata, grazie a tante sinergie. Ed è solo uno dei molti progetti, talvolta anche ben al di là dell’ambito musicale, del gruppo e dei suoi componenti.
L’appuntamento al Premio Bindi diventa l’occasione per rincontrare Andrea Satta. È la voce dei Têtes de bois, e non solo. Satta, infatti, è innanzitutto un pediatra di base; dell’intreccio di professione, arte e sogni ha fatto virtù e concretezza. Qualche anno fa avevamo recensito, da queste colonne, Ci sarà una volta. Favole e mamme in ambulatorio (illustrazioni di Sergio Staino; Infinito edizioni, 2011; n.e. 2013). Un volume di fiabe e racconti raccolti insieme ai genitori dei bambini che frequentano l’ambulatorio dove esercita la professione medica. Un luogo costruito negli anni per accogliere. “Ambu”, così lo chiama Satta nelle pagine che introducono le storie donate dalla memoria della comunità che a lui si affida, affidandogli i propri figli, il loro futuro. Persone provenienti da trentacinque paesi del mondo. Così è nata l’idea: un giro di fiabe, un giro di condivisione, inizialmente a piccoli gruppi. Un’occasione per condividere discorsi, pure intorno all’idea di mondo. Un mondo accogliente, senza razzismo.
E per farlo bisogna partire dalla propria postazione, mettersi in gioco, creare occasioni.
«Credo molto nella distribuzione territoriale. L’ambulatorio di un pediatra – lo vivo quotidianamente – è un luogo di incontro formidabile. Ogni 500 bambini in Italia c’è un pediatra. Gli ambulatori sono per le famiglie un luogo d’incontro inevitabile, un presidio trasversale, e così se lavori anche su questi temi il messaggio arriva a tutti, non salti nessuno… arriva ai nonni, ai genitori, ai figli. Questo canale può far arrivare i nostri sogni», dice Satta.
Continuiamo a parlare degli ambulatori pediatrici, come luoghi di opportunità e responsabilità: «Alle volte le denominazioni hanno un senso… il mio servizio, ad esempio, è definito pediatria di libera scelta. Libera scelta, di chi? Dei genitori, sono loro che decidono a chi affidare la crescita del proprio figlio. Libertà e cura, sono valori strepitosi nei quali le famiglie, quale che sia la cultura, possono riconoscersi. L’ambulatorio pediatrico è davvero traversale. Da me passa il figlio del mascalzone e quello dell’uomo meraviglioso; passa la mamma che si occupa tantissimo del proprio figlio e quella che non se ne occupa per niente; è un taglio della società che su numeri come 1000 bambini inizia ad avere una rappresentatività importante. Io sto in una zona popolare, fuori Roma, ed ho l’Italia vera, l’Italia che vive di espedienti, l’Italia che vive di fatica, l’Italia del disagio e l’Italia che se la cava in qualche sano modo. Incontro anche papà e mamme che hanno l’esenzione per disoccupazione e poi sfoggiano SUV da 50.000 euro; non sta a me giudicare, ma sono elementi che non si sovrapporrebbero in una lettura ordinaria del mondo. Sono indizi che hanno a che fare anche con la salute, col benessere, non in senso materiale ma in senso ampio. Quei SUV non sono solo da condannare, rappresentano uno stereotipo contemporaneo, sono il simbolo delle cose che, in certi contesti, fanno sentire meglio una persona. In certi ambiti sociali sono quelli i simboli e non altri. Lì altri stimoli, altre suggestioni, altri suggerimenti – i libri, l’apertura di orizzonte… – sono arrivati poco e allora possiamo, dobbiamo, fornirli noi. Pensate quanto, ad esempio, può fare in questo senso di fronte al razzismo l’atteggiamento del pediatra. Basta non parlarne mai e fare sempre. Nel momento che accolgo i bambini facendoli sentire tutti uguali, senza distinzioni di origine, questa cosa si riverbera subito anche in sala di aspetto, tra le persone che frequentano il mio ambulatorio. Faccio capire che qui il linguaggio è questo. Chi viene sa che è così e sa che è atteso, e dovuto, lo stesso rispetto, per tutti. L’ambulatorio è uno spazio straordinario, un’occasione meravigliosa, una responsabilità grande», racconta.
Il soundcheck attende. C’è ancora il tempo di conversare con Satta sull’intreccio tra narrazione e musica. Sulla dimensione politica dell’arte. Su nuovi progetti: in ambulatorio ora si condividono anche foto d’infanzia, sono occasioni per stare insieme e per raccontare tempi e luoghi. Infine, gli chiedo come mai, in Ci sarò una volta, lui musicista abbia raccolto storie di parola piuttosto che testi ritmici.
«In realtà ho dato un unico vincolo: raccontare le storie con le quali ci si addormentava da piccoli. Non ho preteso favole, poi sono arrivate soprattutto quelle. A me piaceva che ci fosse dentro l’elemento del fantastico, come personale desiderio e non come obbligo. Col fantastico potevamo andare alle radici più profonde, arrivare oltre il territorio del possibile, dove si creano i salti logici, oltre la barriera della conseguenza logica, fin dove si parte per un altro mondo. Ma con piacere sono arrivati anche ricordi d’infanzia. Nel tempo, ora sono cinque anni, si sono aggiunte tante altre favole che non sono nel libro», racconta.
Del resto Ci sarà una volta, non è solo un libro; è un’idea, un’opportunità di condivisione. A giugno 2015, complici il Comune di Mori (TN) e tanti amici artisti (Moni Ovadia, Dario Vergassola, Lella Costa, Sergio Staino…), diventerà anche un festival di narrazione dove mamme e papà del mondo, con le loro storie, saranno volano e protagonisti. Insieme alla rete di “antenne” territoriali e professionali che intorno al festival di Mori si stanno creando in tutta Italia. «Il festival è un’occasione per ritrovare questa rete, una rete concreta fatta di “corda” e non solo di telematica. Una “corda” fatta di persone».
Quest’articolo è apparso su ANDERSEN 315 (settembre 2014). Qui il resto del numero