L’intervista con Thé Tjong-Khing, che firma la copertina di questo mese, è pubblicata su Andersen n. 362 – maggio 2019. Per sostenere la rivista, abbonati ora.
È dicembre, ma dentro La Nuvola il tempo e lo spazio diventano concetti quasi relativi; forse è per questo che la chiacchierata con Thé Tjong-Khing – classe 1933 – sembra più che mai la fotografia dell’entusiasmo di un bambino, felice sì del proprio creativo giocare, ma altrettanto curioso dei giochi degli altri. Quel giallo abbacinante, ma ormai familiare, della saletta stampa di Più Libri Più Liberi ci accoglie dunque riverberandosi sulle pagine di Tortintavola (2011), Tortinfuga (2013), Bosch (2017) e Tortarté (2018), che campeggiano sul tavolino davanti a noi, sotto lo sguardo fiero del loro illustratore e, certamente, di Ulrike Beisler, che li ha pubblicati in Italia.
Avvolti dai cromatismi paglierini e isolati dal brusio della Fiera, iniziamo a parlare e torniamo indietro nel tempo, nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando Thé Tjong-Khing ha lasciato l’Indonesia per raggiungere quella che da pochi anni aveva smesso di esserne la madrepatria coloniale: l’Olanda. Un periodo travagliato – mi racconta – in cui i libri erano sostanzialmente un lusso. Arrivato con un visto di studio, inizia fin da subito a lavorare ai Toonder Studios, uno dei più importanti studi europei di fumetto e animazione, fondato nel 1939 da Marten Toonder, fumettista a sua volta, e dal produttore Joop Geesink.
Un’esperienza fondamentale: di fronte alla possibilità di dover abbandonare il paese (il visto da studente non era più valido), trova l’appoggio dei colleghi: “Mi ero presentato con una serie di disegni sulle star di Hollywood, il cinema era una mia grande passione. Il mio stile era piaciuto, ma di quelle illustrazioni non sapevano che farsene. Allora ho chiesto loro di darmi semplicemente una piccola scrivania, una sedia, un mese di tempo e avrei realizzato qualcosa di adatto a loro” Altri tempi, chiosa. “Alla fine ci ho guadagnato anche 60 fiorini a settimana, che all’epoca – era il 1957 – erano una buona cifra”. E ne è venuto fuori un fumetto in dodici vignette, mi racconta con precisione mnemonica invidiabile.
“Ai Toonder Studios lavoravano dodici fumettisti”, prosegue, “ho cominciato a osservare tutti quanti e ho notato che ce n’era uno in particolare che si portava del lavoro a casa ogni finesettimana, suscitando le ire della moglie. Così ho iniziato ad aiutarlo a smaltire il lavoro e, quando si è ventilata la possibilità di dover lasciare il paese, lo Studio ha deciso di aiutarmi a rimanere”. Una palestra professionale che gli ha dato tanto e a cui ha dato tanto, prima di passare definitivamente al mondo dell’illustrazione.
“Dopo una decina d’anni che disegnavo fumetti ho iniziato a perdere entusiasmo: il lavoro era diventato troppo ripetitivo. Nel momento esatto in cui ho pensato questa cosa è squillato il telefono: era una scrittrice famosa (Miep Diekmann, ndr), che riteneva che i miei disegni fossero più adatti a delle illustrazioni che non ai fumetti e che, per questo, voleva lavorassi al libro che stava scrivendo”.
Ne sono nati una collaborazione e un binomio quasi esclusivo, con una dozzina di titoli dal 1973 (il primo Total loss, weetjewel, Querido) fino al 1993 con Zóóó groot (Querido), nessuno edito in Italia. “Insomma è stata tutta una questione di essere l’uomo giusto, nel posto giusto, al momento giusto”.
Una situazione che, a suo dire, si è riproposta più volte (“Ognuno ha bisogno di questi momenti di fortuna. Il tuo qual è stato?” mi chiede) e che gli ha poi permesso di incontrare altri autori come Els Pelgrom (Il viaggio della piccola Sofia, edito in Italia da Mondadori nel 1991, Il biglietto della lotteria, pubblicato nella collana dei “Criceti” Salani nel 2003, La montagna degli elefanti, nel catalogo delle Edizioni EL nel 1996) e Sylvia Vanden Heede (da noi solo Ciò che Volpe disse a Lepre, uscito per Fabbri nel 2001).
Poi, sono arrivati i libri come autore completo, tutti accomunati dalla volontà di raccogliere sulla pagina più storie possibili, sollecitare l’attenzione visiva del lettore e, soprattutto, divertire attraverso situazioni rocambolesche e surreali. Tutti senza l’utilizzo di una parola.
“Non sono uno scrittore. Ho difficoltà a scrivere delle storie con un buon inizio, una buona parte centrale e una buona conclusione. Nei libri che disegno mi interessa seguire la storia in modo non completamente lineare. È il bambino che deve costruire un percorso narrativo attraverso la sua fantasia”.
Con Bosch e Tortarté, poi, l’incontro con una forma di divulgazione artistica insolita e originale, condotta sempre esclusivamente attraverso le immagini.“Inizialmente non era mia intenzione realizzare libri di divulgazione. Ho semplicemente usato l’arte come filo conduttore per le mie storie. Poi mi sono reso conto che questo meccanismo aveva avuto successo quando, in un museo, ho incontrato una famiglia. Uno dei due bambini è corso verso la mamma dicendole: ‘Mamma, c’è un disegno di Thé Tjong-Khing appeso al muro!’.
Da lì ho capito di essere riuscito nel mio scopo.”
Certo che Bosch, fra tutti gli artisti olandesi, non è il più facile.
“Per molto tempo ho avuto un’idea, che si è poi tradotta nel libro dedicato a questo artista. Il lettore adulto si aspetta un certo immaginario, e un certo tipo di personaggi, mentre il lettore bambino no. Il mio progetto era realizzare illustrazioni che facessero provare un’emozione ai bambini, che li facessero esclamare, guardando il personaggio centrale: ‘No, non andare da quella parte!’”
Apre il libro e inizia a mostrarmi come ha lavorato sulle pagine “La trasformazione molto lenta di un personaggio, la sua evoluzione, è un altro elemento fondamentale del mio lavoro” sottolinea.
Non solo di un personaggio, però, anche delle ambientazioni: sfoglia Bosch e mi chiede se ho capito cosa è successo ai cespugli che, nelle ultime pagine, hanno assunto una forma diversa rispetto alle prime.
Non vede l’ora di svelarmi tutto, il suo entusiasmo è contagioso. “Proprio perché non uso parole, posso concentrarmi sulle azioni. Così, ho immaginato che questi due personaggi (indica i due uccellini muniti di cesoia) vivessero la storia nel senso opposto rispetto agli altri: loro fin dal principio potano i cespugli, delineando così una storia che corre in senso opposto a quella principale”.
Poi ci regala un altro “dietro le quinte”: “Tutti i disegni e i personaggi di questo libro derivano dai quadri di Bosch, tranne alcuni oggetti disseminati tra le pagine che sono opere di mia moglie, l’artista Mino Wortel”.
Ma è più facile o più difficile, gli chiedo, partire da opere di artisti noti anziché da un’illustrazione originale? “Sono due possibilità che mi affascinano in maniera diversa: in Tortinfuga e Tortintavola c’è molta più creatività, mentre in Bosch e Tortarté l’arte è un suggerimento subito riconoscibile dal lettore , anche se non del tutto”.
E le storie nascono subito o si formano in fasi successive? “Tutto si crea disegno per disegno, fase dopo fase. Magari ho in mente una linea generale (la torta che viene rubata, i personaggi che inseguono i ladri) ma, poi, mi viene spontaneo inserire un personaggio nuovo, dunque devo tornare sulle pagine prece- denti e rimettermi a disegnarle. Spesso mi capita di avere venti versioni differenti di una stessa storia”. “Capita, come in questo caso:” – prende Tortintavola – “c’è questo punto in cui il maialino cade dalla montagna e bisogna che in qualche modo si salvi. Decido dunque di inserire una cicogna che intervenga, ma di conseguenza, devo inserirla nelle pagine precedenti e creare una storia anche per lei”. Una fatica che mi sembra abbia affrontato con piacere, vista la soddisfazione con cui mi descrive ogni trovata.
“Oppure qui, in Tortarté: in questa tavola il ladro sta volando via con il bottino e tutti i personaggi si mettono in barca per agguantarlo. Ma come raggiungerlo? La prima idea era quella di disegnare un mostro marino, poi però ho preferito utilizzare ‘La Grande Onda’ di Hokusai per trovare la soluzione. Funziona bene no?”.
Insomma, mi sembra di capire che nel suo lavoro si diverta parecchio. Un sorriso larghissimo precede la risposta: “Sì, moltissimo”.