L’articolo del mese, firmato da Lorenzo Luatti, indaga la rappresentazione dei migranti negli albi illustrati ed è stato pubblicato su Andersen n.391 – aprile 2022. Sostieni la rivista Andersen con un abbonamento.
Dal secondo decennio del nuovo secolo una crescente produzione di albi illustrati per l’infanzia ha fatto ricorso a un linguaggio metaforico “totale” (alfabetico e iconico) e a personaggi antropomorfizzati (animali umanizzati o immaginari) per parlare, in modo semplice e delicato e con un medium più riconoscibile ai piccoli, di migrazioni e melting pot, di fughe indotte, di naufragi e di accoglienza data o negata. Il crudo realismo e la drammaticità delle storie di migrazione giunte in questi anni sulle coste italiane ed europee, e la convinzione che ciò nonostante esse debbano essere raccontate, hanno spinto autori ed editori a trovare chiavi e mediazioni narrative più adatte alla sensibilità di bambini e bambine, seguendo in questo l’insegnamento di Gianni Rodari il quale sosteneva che si può parlare delle cose più serie parlando di gatti e raccontando favole.
Il richiamo al grande scrittore di Omegna ci rammenta che l’antropomorfismo è elemento centrale della favolistica mondiale sino alle più recenti narrazioni per l’infanzia: attraverso gli animali che esprimono i propri pensieri, gli stati d’animo e i difetti stessi dell’uomo, le favole ripropongono aspetti della sfera umana, talune volte criticandola altre volte compiacendola. Anche gli albi illustrati di cui qui discorreremo, o almeno buona parte di essi, sebbene guidati dall’intento rodariano di rendere accessibili contenuti seri e complessi al mondo dell’infanzia, non rinunciano a trasmettere, mutatis mutandis, messaggi educativi e lezioni morali nella convinzione che i bambini imparano dalle storie antropomorfiche in modo altrettanto efficace, se non migliore, che dalle storie con personaggi umani.
Certo è che animali umanizzati o immaginari e storie antropomorfiche in “chiave” emigratoria non sono una novità assoluta nella letteratura per l’infanzia. In passato, il tema migratorio ha avuto una prevalente se non un’esclusiva forma di raffigurazione simbolica nella metafora delle rondini “italiche” disperse per il mondo, affaticate e sofferenti, e che al fine fanno ritorno al luogo natio: agli uccelli migratori per antonomasia, a uno svolazzare di rondinine, iconiche e testuali, i libri per ragazzi e ancor più i libri di lettura per la scuola del periodo liberale e repubblicano, e segnatamente i testi unici fascisti, fecero indefesso richiamo. Da tempo, malgrado qualche sporadica ripresa, il simbolo pennuto per eccellenza della migranza ha segnato il passo a beneficio di una gamma diversificata di animali considerati più vicini all’immaginario e alla sensibilità dei bambini, quadrupedi in particolare, sovente dalle fattezze umane (gatti, topi, conigli, ma anche iguane, bradipi, leoni, orsi e così via).
Ad inaugurare il “nuovo corso” è stato un orsetto peruviano che dopo aver viaggiato nascosto su una scialuppa di salvataggio arriva a Londra nella stazione di Paddington (da cui poi prenderà il nome), senza un penny, con addosso solo una targhetta che chiede di prendersi cura di lui: il simpatico e pasticcione animale cerca accoglienza e un futuro migliore in una terra straniera, sperando di integrarsi in una nuova società che vorrebbe diventasse la sua nuova casa. Così prendono avvio le avventure seriali di Paddington, L’orso del Perù, personaggio-simbolo della letteratura britannica per bambini e immenso successo internazionale, uscite in Italia nel 1962 nella celebre collana “Il Martin Pescatore” diretta da Donatella Ziliotto, che ne curò anche la traduzione, oggi nel catalogo Mondadori (L’orso Paddington). Il suo creatore, lo scrittore inglese Michael Bond (1926-2017), si ispirò agli immigrati giunti dai Caraibi a Londra tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta e al clima pregiudizievole che nell’estate del 1958 portò, poco prima della pubblicazione del primo libro della serie, ai peggiori scontri a sfondo razziale che la Gran Bretagna avesse mai visto. È proprio nella zona londinese di Notthing Hill, abitata prevalentemente da neri e immigrati di origine caraibica, ed epicentro dei violenti tumulti interetnici, che Bond colloca esplicitamente le storie dell’orsetto peruviano, un personaggio straniero che è, per sua stessa ammissione, un immigrato “clandestino”, senza nome e senza età, e in apparenza pure senza un passato prima di essere accolto dai compassionevoli coniugi Brown, momento a partire dal quale l’animale acquista un’identità definita. Paddington è un immigrato bonario e sprovveduto, dagli autoctoni inizialmente trattato con diffidenza e superficialità, che si assimila con entusiasmo e volontà alle norme della cultura dominante. Solo a queste condizioni egli, e gli immigrati come lui, possono essere destinatari di gesti di tolleranza e comprensione.
La condizione dell’emigrante nelle metropoli del Nord, e i temi dell’ecologia e delle disuguaglianze sociali erano toccati, attraverso personaggi antropomorfizzati, nell’albo di Maresa e Mario Leddi Mi diverto un sacco pubblicato all’inizio degli anni Settanta nella storica collana munariana “Tantibambini” (Einaudi, 1973). Protagonista della storia è un’affollatissima famiglia di gatti meridionali trapiantata a Milano che vive all’interno di un’auto che giace capovolta in un “quartiere” – secondo la gatta Assuntina voce narrate della storia, o meglio, un “cimitero” di automobili agli occhi del lettore -, come certi migranti meridionali che dormono in utilitarie abbandonate, come riportavano le cronache di quegli anni e come riporteranno negli anni ottanta e novanta per gli immigrati stranieri in Italia. Sempre una famiglia di topi migranti (in questo caso ebrei russi) animavano le vicende dell’albo Fievel sbarca in America (Mondadori, 1987), una favola moderna tratta da un film d’animazione di Steven Spielberg che attinge ad alcuni classici topoi dell’emigrazione ottocentesca transoceanica, ma dove tutti i personaggi del racconto sono animali: protagonista è la famiglia Toposkowich sospinta dalle persecuzioni in America nell’illusoria speranza di trovarvi una pace facile e prosperosa.
Nell’albo Piccolo-grigio (Aer, 1995), una storia di sopraffazione e violenza dal finale dolce-amaro della scrittrice e illustratrice franco-polacca (Violet) Elzbieta (1936-2018), una famigliola di conigli caduta in miseria e cacciata dal proprio paese è costretta a nascondersi ed errare per trovare una nuova abitazione; ormai profughi e clandestini, la famiglia di sans papier viene inseguita ovunque da cattivissimi gendarmi-cacciatori, conigli panciuti di colore rosso fuoco, ma grazie alla perseveranza di Piccolo Grigio e a una spugna magica troveranno la libertà… su un’isola di rifiuti in mezzo al mare! Non sono poi mancati, negli anni di maggiore afflusso di bambini stranieri nelle scuole italiane (primo decennio del Duemila), gli albi illustrati con storie di orsi, pinguini e altri animali umanizzati, impacciati e intimoriti, alle prese con nuovi e “differenti” compagni di scuola venuti da lontano: storie che la coeva comunicazione editoriale sovente presentava, per l’appunto, di “multicultura e integrazione”, e che contribuivano a ingrossare un filone – l’incontro con il “diverso” e con l’alterità raffigurata da animali umanizzati – già esplorato nella letteratura per l’infanzia.
Alcuni recenti picture e silent books, per lo più ispirati dall’emergenza rifugiati degli ultimi anni e dalla necessità di permettere ai bambini di esplorare un argomento scottante e complesso, affrontano il tema dell’immigrazione e dei connessi processi di ambientamento nel nuovo contesto d’approdo attraverso figure antropomorfizzate o ricorrendo a un linguaggio altamente metaforico ed evocativo. Cinque cuccioli di animali sono i protagonisti di La zattera (Createspace Independent Pub, 2014) albo illustrato e autoprodotto da Lucia Salemi, che l’autrice chiama con nomi che parlano della loro diversità e fanno venire in mente i volti umani che potrebbero esserci dietro. Sono in viaggio su una zattera alla deriva in mezzo al mare, soli e spaventati, così per confortarsi si raccontano cosa hanno portato nelle loro esili valigette: i doni dei genitori, i desideri e i bisogni viaggiano insieme alle speranze e alle paure di ciò che attende loro al di là del mare.
Ad assumere protagonismo in questi albi illustrati è un altro simbolo per eccellenza dell’espatrio e del viaggio di migrazione di uomini e donne, la valigia, che ha connotato l’epopea migratoria degli italiani (le celebri “valigie di cartone”) anche nelle raffigurazioni proposte dai libri per ragazzi, sebbene ora con significati metaforici più densi e marcati. Non si tratta soltanto di un richiamo alle cronache degli sbarchi, ma della tessitura di un legame affettivo tra memoria e presente, tra le nostre emigrazioni e quelle odierne. In La valigia (Carthusia, 2019) di Angelo Ruta, una splendida narrazione senza parole e rigorosamente in bianco e nero, c’è un bambino in carne e ossa, una valigia e una città distrutta dalla guerra, e c’è il viaggio solitario che il bambino intraprende per fuggire dagli orrori, dalla violenza, dalla distruzione. Quel piccolo bagaglio assume un duplice valore metaforico: è rifugio, scrigno dei ricordi e dei sogni felici dove si può tornare, ma è anche simbolo del viaggio verso un nuovo mondo per ricominciare, andare avanti, speranza per il futuro. Nell’albo di Chris Naylor-Ballesteros, Cosa c’è nella tua valigia? (Terre di Mezzo, 2019), uno strano animale dallo sguardo stanco e dalla schiena ricurva, che ha viaggiato a lungo perché viene da molto lontano, approda in una nuova terra dove viene accolto con ambivalenza, tra diffidenza e sincera amicizia: nella sua grossa e pesante valigia lo “straniero” porta pochi averi e ricordi, ciò che resta della sua casa sulla collina che guarda il mare.
Anche Benvenuti! (Clichy, 2017) di Barroux parla di accoglienza e solidarietà, paura del diverso, migrazioni dettate da necessità e da tragedie belliche o climatiche, attraverso le disavventure di tre orsi bianchi alla deriva su una zolla polare distaccatasi dal banco di ghiaccio su cui si trovano intenti a pescare. I tre profughi raggiungono via via terre ferme abitate da altri animali (mucche, panda, giraffe) ma le loro suppliche non valgono a nulla contro l’indifferenza e le assurde scuse accampate dagli abitanti preoccupati per l’arrivo di esseri diversi, fino a quando, persa ogni speranza, approdano su un’isola deserta dove iniziano una nuova vita. L’esperienza vissuta servirà loro da monito e a far maturare un atteggiamento aperto e solidale verso l’altro.
Di un certo interesse è l’albo (Non) C’è posto per tutti (il Castoro, 2020) della coppia australiana Kate e Jol Temple, con un testo alfabetico scarno, eppure essenziale che accompagna i nitidi disegni di Terri Rose Baynton; è una storia che parla di accoglienza, di fare (e di non fare) posto per tutti, in questo caso a una famiglia di foche che cerca una nuova casa, su una striscia di terra abitata da altri simili, ma invano, perché gelosia del proprio spazio fisico, mancanza di empatia nei confronti di chi arriva da fuori portano a scacciare i nuovi arrivati, presunti invasori. La storia però non termina qui, il libro infatti può leggersi dall’inizio alla fine e viceversa, e così, se dall’ultima pagina si torna indietro i temi cambiano completamente: c’è accoglienza, c’è desiderio di fare posto, di allargare i confini e le famiglie. In scena non c’è soltanto la contrapposizione tra mondo reale (storia 1) e mondo ideale (storia 2), tra rifiuto ostile e accoglienza incondizionata dell’altro, posizioni e sentimenti che possono convivere, e di norma convivono nelle società, qui espresse con un certo funzionale schematismo e con una circolarità storicamente assodata; ma c’è pure l’incrocio di sguardi asimmetrici tra chi emigra accompagnato dalla speranza di trovare un “buon” approdo e chi, sull’altra sponda, decide le sorti altrui, mostrando ora il volto cattivo, sentendosi sotto assedio si arrocca nel proprio microterritorio, ora il volto di un’umanità che riscopre la sua vera essenza, più aperta e solidale.
Con Migranti (Logos, 2020), Issa Watanabe, autrice e illustratrice peruviana, racconta con straordinaria forza visiva il periplo di alcuni animali costretti a lasciare tutto e imbarcarsi, senza più voltarsi indietro, con i loro pochi averi, in un viaggio di morte e speranza. Un albo duro e dolente, ma anche pieno di gesti che esprimono tenerezza e solidarietà, che attinge a piene mani dalle cronache drammatiche di milioni di persone in fuga dalla propria terra (con tanto di campo profughi, viaggi sul barcone, annegamenti…).
A trovarsi senza più casa dopo una terribile tempesta che ha spazzato via il loro nido è una famiglia di marsupilani nell’albo Il nuovo nido dei piccoli Marsù (Bohem press, 2017) dell’autore e illustratore francese Benjamin Chaud, il quale con il consueto tono di leggerezza mette sotto gli occhi del lettore il problema delle emigrazioni forzate e la mancanza di solidarietà che, come avviene nella nostra realtà, anche i marsupilani sperimentano, respinti dai tanti “no” pronunciati da tutti gli animali che comodamente abitano già la foresta, finché il pericolo imminente creerà, secondo un noto topos, unione e collaborazione. I disegni dinamici e i colori consentono al lettore di attraversare i diversi stati d’animo (paura, sorpresa, tristezza, gioia…) dei componenti della simpatica famiglia.
E infine, si parla di immigrazione, o meglio della condizione esistenziale dell’espatriato, in modo fantasioso e divertente, nell’albo bilingue di grande formato Gli spaesati-Les Dépaysés (Verbavolant, 2019), scritto dalla poetessa e autrice italiana di origine francese Mia Lecomte e illustrato da Andrea Rivola: quindici animali lasciano la propria terra d’origine, chi volontariamente chi perché “doveva”, e si recano (si ritrovano) all’altro capo del mondo, con conseguenti vantaggi e svantaggi e la necessità di adattarsi a un habitat molto differente. Pappagalli brasiliani che migrano in Tibet, stambecchi bavaresi a Ipanema, bradipi che dai Tropici giungono in Islanda, foche a Venezia, balene a Londra, coccodrilli nel deserto… sono solo alcuni degli animali fuori contesto, “Spaesati” per l’appunto, che popolano questo albo coloratissimo, scritto in rima baciata, dagli esiti imprevedibili e spiazzanti.
A soffrire un certo spaesamento, in altri albi, sono invece gli autoctoni, gli stanziali da più generazioni, che vedono popolare i quartieri e i condomini da bizzarri animali umanizzati arrivati chissà da quale parte del globo, portatori di tanta diversità e di stravaganti abitudini.
In questi albi illustrati dalla metafora immediata l’arrivo di nuovi vicini è sinonimo di svecchiamento, di colore e vita rispetto a posti piuttosto grigi e noiosi, dove dominano brontolii piuttosto che sorrisi, come accade nell’albo Meravigliosi vicini (orecchio acerbo, 2020) di Hélène Lasserre e Gilles Bonotaux o, dieci anni prima, alla giovane Dorotea in I miei vicini di casa (La Margherita, 2009) di Guido Van Genechten e Silvie Park, che nel breve torno di tempo viene circondata da nuovi inquilini molto strani, esotici per il vero, arrivati da ogni parte del globo. Talvolta, invece, troppa diversità provoca fenomeni di evitamento negli autoctoni, con la fuga dai quartieri multietnici come racconta Il mio vicino è un cane (La Nuova Frontiera, 2011) dei portoghesi Isabel Minhós Martins e Madalena Matoso, un albo originariamente sponsorizzato da Amnesty International e che, sebbene popolato da animali umanizzati, non fa mistero di essere metafora di scene di vita quotidiana. Ed è proprio nell’esplicito riferimento a un’attualità stringente e mediatizzata, quella dell’umana migranza, che certe tematiche conoscono una rinnovata esplorazione.
I “muri” che separano e dividono popoli, famiglie, persone e pure animali, motivo su cui insiste una significativa e pur remota produzione di albi per l’infanzia, nella contemporaneità diventano “muri” e barriere antimmigrazione, sovente eretti da governanti ottusi per preservare la comunità originaria dagli intrusi, come rammenta Il Muro (Nuinui, 2018) di Giancarlo Macrì, Carolina Zanotti, Sacco e Vallarino, un albo molto colorato e dall’esile trama in cui si narra del Re del popolo delle facce blu che un giorno, sceso dal trono, scopre di essere circondato da facce di tanti colori; da qui la decisione di tornare al passato e di separare il suo popolo dai non-blu, allontanando gli intrusi e ordinando la costruzione di un muro, fino al giorno in cui lo svagato sovrano dovrà ritornare sui propri passi e ristabilire la mescolanza iniziale. Si accorge infatti che gli stranieri si rivelano “utili invasori” per gli interessi e il benessere del regno: le facce rosse sono i migliori muratori, le facce gialle sono scultori abilissimi, le verdi sono competenti giardinieri, le grigie ingegneri e così via, a ogni colore corrisponde un gruppo di “intrusi” che sa fare (o si dice sappia svolgere) con ingegno e perizia un mestiere.
Il messaggio “interculturale” di questa favola dal sapore dolceamaro è esplicito, ma pure venato da certa ambiguità: ogni gruppo d’intrusi è accettato entro i confini nazionali in quanto portatore di una specifica professionalità utile e necessaria al regno, sia a bassa che ad alta qualificazione. Il muro fisico è così finalmente abbattuto, questo è indubbio, ma al suo posto adesso si ergono le sgradevoli barriere dell’utilitarismo selettivo per cui ad ogni “colore”, e fuor di metafora ad ogni provenienza, è attribuita un’idoneità a svolgere certe mansioni, è riconosciuto un “saper fare bene” un certo mestiere, che cristallizza e stereotipizza, rammentando ben noti meccanismi di categorizzazione professionale degli immigrati.