Questo articolo è apparso su Andersen n.311. Abbonati ora per sostenere la rivista.
La scrittice dona parte del proprio patrimonio artistico a Serra Riccò, il comune ligure dove è nata. È l’occasione per tornare sulla sua opera, fatta di rigore, ironia e inglesitudine.
A venticinque, ventisei anni facevo la giornalista al Giornale (quello di Montanelli) e leggevo tutti i libri per ragazzi che uscivano. E ne uscivano tanti: era la seconda parte degli anni Ottanta, l’epoca più vivace per la nuova narrativa sia italiana sia di traduzione, con le più belle collane di tascabili che muovevano i primi vigorosi passi. Sarebbe stato bello poter unire le due passioni, e quindi scrivere di libri per ragazzi. Ma la terza pagina era un paradiso lontanissimo, e poi a farlo – a scrivere di libri per ragazzi sulla terza pagina – era una persona che i libri per ragazzi li conosceva bene, e li scriveva, anche: Beatrice Solinas Donghi.
Doveva passare un’altra decina d’anni buona per incrociare di nuovo quel nome, quella signora: fu quando pubblicò in una collana di tascabili – un’altra, arrivata un po’ più tardi rispetto all’epoca d’oro – che era nata facendo uso di un illustre simbolino di casa Bompiani, i Delfini, e poi era passata a Fabbri. Io me ne occupavo da redattrice, e fu così che conobbi prima di tutto i testi di Beatrice, battuti a macchina con minime correzioni, e così impeccabili da non richiedere nessun intervento di redazione – nessuno; e poi, al telefono, la sua voce ferma e il suo piglio asciutto, in sottofondo sempre una vaga vena d’ironia, l’idea di fare cose serie senza prendersi troppo sul serio. Curioso come la descrizione di una voce si attagli anche alla sua prosa: la bambina Alice, protagonista del primo dei libri che pubblicò in quella collana (oggi riunito ai due sequel nella Trilogia di Alice, BUR Ragazzi, 2010), è una piccola avventuriera inglese che scappa di casa, si ribella alle regole e fa quello che deve senza mai perdere una sua buffa solennità.
Ed è in quell’inglesitudine che a Solinas Donghi arriva per via genetica che risiede un tratto profondamente peculiare e caratteristico del suo modo di raccontare i ragazzi. Fermo e asciutto sono due aggettivi che raccontano bene la sua lucidità di scrittura: senza mai strizzar l’occhio al suo pubblico, dimostrandogli dunque un grande rispetto, con una fluidità che non è mai banalità, con una scelta precisissima di parole misurate, Solinas Donghi mette in scena ragazzini che cercano in ogni modo di essere fedeli a se stessi. Sono bambini di altri tempi, e quindi, come il giovane Flaminio avviato alla carriera militare (L’avvenire di Flaminio, Fabbri, 2001), sono circondati dal dovere; ma riescono, come Rosina-Annetta divisa tra due famiglie e due esistenze diversissime (Rosina, poi Annetta, Fabbri, 2004), a non lasciar soffocare la loro indole, i veri desideri, i sentimenti da quelle circostanze esterne – l’educazione, i pregiudizi, i contrasti tra adulti – che potrebbero deviarli. Assorbono le nuove idee e le fanno proprie come le nuove piante assorbono acqua e sole: Maria Francesca, la protagonista di L’enigma della cupola (Rizzoli, 2009), respira l’aria della Rivoluzione Francese, stringe amicizia con una ragazzina di ceto diverso, aiuta un parente maturo trattenuto dalle regole a non reprimere più i propri slanci.
Gli adulti in queste storie sono conservatori, irrigiditi nelle loro posizioni, ciechi, sordi, ostili: non c’è nemmeno bisogno di metterli alla berlina alla maniera di Roald Dahl, fanno tutto da soli, è come se la loro grettezza, la loro insensibilità lentamente li rimpicciolisse, li raggrinzisse agli occhi di chi legge. È sempre la marcia in più dei bambini, il loro sguardo diretto a cambiare le cose. Poi, fra tanti che restano ostili e remoti e arroccati, alcuni ascoltano, guardano oltre, si fanno contagiare dal cambiamento, e imparano a star meglio, a fare meglio nel mondo. Bambini, ragazzini, anzi, ragazzine: Ippolita e Gina di Quell’estate al castello (EL, 1986), Lisetta e Regina del Fantasma del villino (Einaudi Ragazzi, 1992). Bei nomi di una volta, spettri e misteri, stagioni del cuore, la guerra, una bambina ebrea nascosta, i partigiani. Tutti temi cari alla letteratura per ragazzi, ma trattati con una leggerezza e una profondità che allontana questi romanzi dalla pratica del libro a tema così diffusa nel nostro periodo. In Solinas Donghi senti sempre l’onestà e la curiosità del punto di partenza, che sia un luogo (una dimora su cui fantasticare), un segreto, la semplice fatica di crescere.
Hanno meno problemi e soluzioni più spicce, com’è giusto, i personaggi da fiaba: le fate e i re de Le fiabe incatenate (EL 1994), le principesse de La gran fiaba intrecciata (EL, 1987), Ninetta delle Storie di Ninetta (Mondadori, 1990), sospesi in un tempo strano in cui le bambine abitano con le nonne al limitare del villaggio, hanno a che fare con neonati giganti, investigatori pasticcioni e Uomini Selvatici, tutto insieme in una zuppa d’immaginazione in cui passato e presente non sono rilevanti, e prevale il passo un po’ nonsense delle storie tradizionali. Anche qui un lampo d’Inghilterra che si libera sommesso tra le righe.
Nella produzione da grandi, punteggiata da successi (Giorgio Bassani come primo estimatore illustre, un Premio Campiello nel 1965) brilla, tanto nella saggistica quanto nella narrativa, un amore profondo e discreto per la grande letteratura del primo Ottocento: in Vite alternative (Il Canneto Editore, 2010) il racconto del titolo parla del legame tra una studentessa e una studiosa più matura, nato quasi per caso ma su base libresca e proseguito fra tè senza tè e telefonate da lontano nella ricerca di un destino altro per Anne Brontë, la meno nota delle sorelle dello Yorkshire, a cui le due quasi amiche vogliono, forse devono attribuire una vita più lunga e più felice del vero, trovando alla fine (in biblioteca, ovvio) un puntello quasi fantastico per avvalorare la loro ipotesi. E in Emily Brontë: al di qua della leggenda (Campanotto, 2001) la biografia della sorella più appassionata è ricostruita attingendo alle lettere di famiglia, con la mano sicura di chi sa come accostarsi alle fonti e lasciarle parlare. Attraversa tutta quest’opera, che è tanta, e di qualità sicura, senza cadute, senza concessioni, la serietà, la sobrietà, la compostezza che abbiamo l’abitudine di attribuire alla migliore letteratura inglese: dove la padronanza della forma che trova e tiene una sua misura è scontata, sottintesa e indiscutibile, e i contenuti, pur mescolando le dimensioni del reale e del fantastico con disinvoltura, sono scelti e maneggiati per autentico, acuto interesse, anzi, per necessità.
[da ANDERSEN 311, aprile 2014. Scopri il resto del numero qui]