L’intervista a Francesca Archinto, editrice di Babalibri.
A Milano, in via Brisa 3, una piccola casa editrice, la Babalibri, lavora quotidianamente per proporre all’infanzia un’editoria di qualità. Sono passati ormai oltre quindici anni dalla sua fondazione, avvenuta nel 1999, e nelle parole di Francesca Archinto, che da allora la dirige, si può leggere una storia che ha il sapore di una “sfida”. La francese Ecolés des loisirs, casa editrice interessata a “esportare” i propri autori e allo scambio con autori stranieri, dopo aver fondato nel 1994, in Germania, la Moritz Verlag e nel 1997, in Spagna, l’Editorial Corimbo, decise di coinvolgere Rosellina Archinto, mamma di Francesca, con la quale aveva avuto una collaborazione per i diritti dei libri italiani ai tempi della Emme Edizioni, nella fondazione di una nuova casa editrice, quella che poi sarebbe diventata, appunto, Babalibri. Non una filiale, come le altre due, ma una vera e propria società. Ricorda Francesca: «Rosellina non si occupava più di libri per bambini, però davanti a questa proposta disse subito di sì. Come pensasse di gestirla non saprei, però disse di sì».
Di lì a poco avrebbe chiesto a Francesca di dirigerla: «mi disse: “Senti, c’è la Babalibri, hai voglia di occupartene?”. Così, semplicemente. Che fare? Conoscevo i bambini, conoscevo il campo legato ai giochi [Francesca aveva fondato, nel 1985, a Milano, una cooperativa di servizi per l’infanzia, la Giocoteca del Parco e prima ancora aveva avuto un’esperienza lavorativa in una biblioteca per ragazzi francese], ma non quello editoriale, men che meno quello legato all’editoria per l’infanzia e non sapevo fare l’editore. Però decisi di rischiare e di accettare la scommessa. Allora le risposi: “Se tu mi dai una mano, almeno agli inizi, proviamoci”. Accettò. È stato così che ho iniziato a fare l’editore.
Sono entrata in Babalibri alla metà del 2000, quando la casa editrice aveva quasi un anno. Il lavoro mi ha subito molto appassionata e divertita e ancora adesso mi diverte un sacco. Una delle cose che mi piacciono di più della mia casa editrice è la “piccola dimensione”, perché permette di occuparsi di tutto: dalla scelta editoriale alla redazione, alla traduzione (che a volte faccio personalmente) al rapporto con i promotori e la distribuzione, alla relazione con le biblioteche e con gli insegnanti. Un vero e proprio antidoto alla noia. Ogni tanto “corro dietro” alle cose invece che portarle avanti io, ma questo fa parte del gioco». Un gioco nel quale la scelta di ogni singolo testo è fatta pensando al bambino, che non è certamente un “piccolo uomo”, un “vaso da riempire”, ma un individuo capace di vedere il mondo in modo diverso: «Per rendersene conto – continua -basta guardarlo mentre gioca: gli basta dire “facciamo che ero un principe” ed è già principe. Gioca da principe. Anche l’autore dei libri per l’infanzia è capace di farlo. Ecco, è pensando a quel bambino, e a quell’autore, che costruisco il mio catalogo».
La specificità del lavoro della casa editrice è quella di rivolgersi soprattutto alla fascia pre-scolare (0-6), mantenendo la “radice” Emme Edizioni: i classici di Maurice Sendak, Leo Lionni, Iela Mari; albi di forte impronta “roselliniana”, continuano a far parte del catalogo Babalibri, e, come racconta ancora Francesca Archinto: «ne rappresentano bene l’identità. È nel rispetto di questa identità che continuo a fare le mie scelte editoriali. Mi stupì ad esempio che, in dodici o tredici anni dall’ultima edizione di Piccolo blu e piccolo giallo (uscita nel 1985), nessuna casa editrice ne avesse più comprato i diritti. Eppure oggi, guardo i dati di vendita, fa circa seimila copie l’anno; numeri altissimi per gli standard della casa editrice. Allora mi chiedo: è possibile che ci sia ancora qualche bambino che non abbia in casa questo libro? E lo stesso vale per Sendak. Erano troppo a impronta Emme Edizioni? Non so ancora trovare una risposta. Quel che so per certo è che hanno contribuito in maniera determinante a costruire l’identità della Babalibri». «Certo – prosegue – a volte capita di trovarsi di fronte ad adulti che dicono: “Mio figlio non sa leggere, cosa gli compro a fare un libro?” Quelli ci sono e ci saranno sempre. In Italia scontiamo una fortissima arretratezza in questo settore, ma c’è stato e c’è anche un grosso lavoro puntato tutto sulla qualità, portato avanti soprattutto da piccole case editrici, che hanno fatto cataloghi di altissimo livello. E alla fine la qualità ripaga». Il dialogo si infittisce, ho almeno altre tre o quattre domande alle quali non rinunciare.
Qual è la “mission” con la quale è nata la casa editrice?
«L’idea con la quale la casa editrice è nata, poi mantenuta, è stata di non fare creazioni di libri, ma di cercare dei titoli esteri da portare in Italia. Le ragioni sono varie, prima fra tutte il desiderio di fare in modo che Babalibri restasse una piccola casa editrice. Tradurre libri stranieri [soprattutto da Ecolés des loisirs, con la sua filiale belga Pastel, e da Kaleidoscope, ndr] mi permette di farlo. Senza contare poi la mia passione per la ricerca: amo moltissimo e mi diverte andare in giro a vedere e curiosare nei cataloghi, anche perché mi permette di non restare chiusa nella mia idea di libro per l’infanzia.
La sfida più grande, poi, è riuscire sempre a mantenere le scelte dentro a una coerenza di catalogo che è quello Babalibri. A volte mi capita di trovare dei libri bellissimi che però, a ben guardare, “non sono” Babalibri. Allora non entrano nel mio catalogo. Il lavoro di ricerca è una delle parti più belle e appassionanti, ma anche più impegnative. È però necessario, perché la coerenza consente di mantenere l’identità della casa editrice: albi illustrati, soprattutto per la fascia prescolare. A un certo punto mi sarebbe piaciuto incominciare a pubblicare qualche romanzo, ma poi mi sono detta che di case editrici che pubblicano romanzi ce ne sono tante e che non valeva la pena entrare in quel settore. L’albo illustrato è un genere editoriale molto particolare, che permette sperimentazione, ricerca, una serie di cose che a mio avviso il mondo della narrativa permette molto meno. Personalmente amo molto guardare, mi piacciono l’immagine, la pittura e nell’albo illustrato trovo di che “saziarmi”».
Come sceglie i libri da inserire in catalogo?
«È una scelta editoriale improntata molto su me stessa: ogni singolo titolo del catalogo è scelto da me, non dimenticando mai le “radici” e l’identità della casa editrice. Mi piacciono moltissimo le storie, non amo particolarmente i libri “a lista” cioè quelli che elencano, per esempio, le cose che si deve o che non si deve fare, oppure quelli del tipo “da grande voglio fare…”. Quei libri, anche se a volte possono essere davvero divertenti, non raccontano una storia. E per me invece è essenziale che un libro la racconti sempre. Aprire un Babalibri significa incontrare una storia che abbia un inizio, un cuore e una fine. In questo sono molto tradizionalista. Anche perché la lettura per un bambino piccolo deve essere sorpresa e la sorpresa viene quando io, piccolo lettore, prevedo che accada una cosa, poi giro la pagina e succede tutt’altro rispetto a ciò che avevo previsto. Amo le storie che fanno ridere, che mettono di buon umore, quelle che leggendo la pagina finale scoppio a ridere. Mi piacciono le storie legate alle emozioni, capaci di entrare in empatia con il bambino, di parlargli, di sfidarlo, di “divertirsi” con lui. Ecco, questo è un po’ il meccanismo che mi guida nella scelta e che mi spinge a dire dei no, anche di fronte a libri molto belli. In catalogo, peraltro, ci sono libri diversissimi tra loro per stili narrativi e iconografici. È difficile da spiegare razionalmente, ma c’è un insieme di caratteristiche che mi fa dire, quando apro un libro e lo sfoglio, “ecco, questo è un libro Babalibri!”»
C’è qualche aspetto rispetto al quale sente di aver “preso le distanze” dall’esperienza di sua madre?
«Rosellina ha avuto un merito straordinario: quello di portare l’albo illustrato in Italia. L’aspetto che ha curato di meno è stato quello commerciale. Il fatto di operare delle scelte molto poco “popolari” ha dato sicuramente forza al suo progetto editoriale, ma è stato anche, paradossalmente, il motivo principale della sua debolezza: a un certo punto ha pagato le conseguenze dell’essere troppo all’avanguardia. È in questo che prendo un po’ le distanze da quella esperienza. Le “radici” culturali sono profondamente radicate nella Emme Edizioni, ma Babalibri fa scelte un po’ più attente sotto l’aspetto commerciale; non vuol dire scendere a compromessi con il mercato, ma considerare, di fronte a un tal libro: “sì, questo è un bel libro, ma lo leggiamo in dieci. Allora vale davvero la pena pubblicarlo?” Questa è la domanda che a volte mi faccio, rispondendomi talvolta di sì, talvolta di no. E quindi non lo pubblico. È successo recentemente con l’ultimo lavoro di Cheng Jiang Hong, l’autore del Cavallo magico di Han Gan. La storia che mi è stata proposta è una storia molto bella, ma è incentrata su uno scheletro. Improponibile ai bambini italiani. Figurarsi, mi rimproverano che faccio i libri con le copertine nere! A volte però mi piace anche un po’ tirare la corda, e puntualmente vengo rimproverata da chi mi dice: “eh, però questo libro mi sembra un po’ forte per i bambini”. Rispondo che ai bambini, ogni tanto, bisogna dare anche degli scossoni. Servono per crescere».
Qual è, invece, l’eredità più significativa che le abbia lasciato sua mamma?
«L’intuizione nella scelta dei libri, questa facilità di leggere un libro e di sentirlo proprio, questa “intimità” con il libro. Quella che mi fa dire: “sì, questo è un libro che mi appartiene, è un libro Babalibri”. Quella che, nelle mie letture personali, me ne fa prendere uno tra le mani per poi abbandonarlo perché non mi piace, e poi magari riprenderlo dopo un po’ e riabbandonarlo. Il libro è un oggetto che fa parte della mia vita, mi appartiene, perciò lo tratto come mi viene da trattarlo, non ho timori né obblighi. Ecco, sì, il legame con il libro e con la carta credo che sia l’eredità più importante che mi abbia lasciato Rosellina e in assoluto quella di cui le sono più grata».
[Questo articolo è stato pubblicato su Andersen n.326 – ottobre 2015. Scopri il resto del numero qui]
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