Universi paralleli e povertà educative nei bambini: il ruolo della cultura
Pubblicato sul monografico estivo di Andersen (n. 364, luglio-agosto 2019), questo articolo è firmato da Giulio Cederna, ideatore e curatore dell’Atlante dell’Infanzia a rischio per Save the Children, che riceve quest’anno il Premio Andersen 2019 ai Protagonisti della Cultura per l’Infanzia. Vuoi sostenere la nostra rivista? Scopri i vantaggi dell’offerta estiva per l’abbonamento annuale!
Una delle idee più nuove della fantascienza, scriveva 50 anni fa Philip Dick, postula l’esistenza di una pluralità di universi paralleli. Secondo questa concezione, i cambiamenti non avverrebbero linearmente, attraverso le consuete categorie di passato, presente e futuro, ma lateralmente, grazie all’improvvisa apertura di spazi alternativi disposti ad angolo retto rispetto allo scorrere del tempo. La trovata è bizzarra. «Nessuno di noi, nel pieno delle sue facoltà, considera neppure per un istante l’idea che tali universi alternativi esistano realmente», disse lo scrittore in una celebre lettura del 1977, pubblicata in Italia con il titolo Se questo mondo vi sembra spietato, dovreste vedere cosa sono gli altri (E/O, 1996). Ma a ben guardare non si tratta di un’idea peregrina. Oltre a costituire un geniale dispositivo per la generazione di storie, questa teoria ha qualcosa da dirci sul mondo in cui viviamo e sulla nostra capacità di pensarlo: ci invita ad andare oltre le apparenze, a mettere in discussione il nostro limitato punto di osservazione, a considerare fino in fondo la varietà di condizioni e di possibilità che caratterizzano la vita su questa terra e nella nostra società, e a riflettere sulle modalità con cui, talvolta, qualcuno riesce a spingersi oltre il giardino, fuori dal proprio orizzonte. «Ma se questi mondi esistono, in che modo sono connessi gli uni agli altri, se realmente sono (o fossero) connessi? Se ne disegnassimo una mappa indicando la loro posizione, come sarebbe questa mappa?».
A distanza di tanti anni una possibile risposta a questa domanda si trova almeno in parte nell’Atlante dell’infanzia a rischio pubblicato da Save the Children a partire dal 2010. La mappa degli universi paralleli immaginata dal grande scrittore non dovrebbe infatti discostarsi di molto dalla stratificazione cartografica con cui negli anni abbiamo cercato di raccontare le profonde differenze, a volte i veri e proprie baratri, che caratterizzano le condizioni di vita e di accesso al futuro dei bambini e delle bambine nel nostro Paese, sotto molteplici aspetti: in termini di risorse familiari e comunitarie (economiche, educative, culturali, di accessibilità e qualità dei servizi) o rispetto agli esiti dei percorsi di formazione dei ragazzi (competenze, dispersione scolastica, accesso al lavoro). Il ritratto a colori divergenti di un Paese profondamente diviso già a livello regionale, come mostrava nel 2012 il cartogramma ‘non contiguo’ (perché realizzato con una metodologia che consente di separare le realtà geografiche – in quel caso le regioni – e di rappresentarle più o meno grandi in relazione ai dati del fenomeno) dedicato alla disconnessione di tanti bambini e ragazzi da alcune delle principali attività ricreative e culturali (lettura, sport, internet, pc, cinema). Il primo tentativo compiuto nell’Atlante di dare conto delle povertà educative e culturali dei più piccoli, a partire da un prezioso focus sulla vita quotidiana dei bambini realizzato nel 2011 dall’Istat.
Per una molteplicità di fattori diversi, nascere e crescere in queste regioni (Campania, Sicilia, Calabria) significa avere meno possibilità di accesso alle principali attività ricreative e formative dell’infanzia. Incrociando i dati, l’Istat ha stimato inoltre in ben 314 mila il numero dei giovani ‘disconnessi seriali’ da tutte e 5 le attività monitorate. Una quota altissima di ‘murati vivi’, pari a circa il 4,6% della popolazione 6-17 anni» (Mappe per riconnettersi al futuro, 2012). Dislivelli e diseguaglianze di opportunità si insinuano a maggior ragione all’interno delle aree urbane, disegnando faglie che separano municipi, quartieri, centri, periferie geografiche, sociali e educative, come abbiamo cercato di mostrare lo scorso anno con abbondanza di mappe e di indicatori (Le periferie dei bambini, 2018). Due bambini nati in Italia nello stesso identico momento storico, a trent’anni dalla solenne promulgazione della Convenzione dei diritti dell’infanzia, possono crescere in universi paralleli anche a pochi isolati di distanza.
In particolare i bambini che crescono nei quartieri sensibili – complessi di edilizia pubblica segnati dal disagio, quartieri dormitorio, rioni storici in abbandono, ghetti della segregazione etnica e sociale, lande abusive – devono imparare a convivere fin da piccoli con un cumulo di difficoltà individuali e collettive (deficit di spazi pubblici, degrado urbano, percezione di insicurezza), e con un senso di progressiva marginalizzazione alimentato dal pessimo funzionamento dei trasporti, dalla carenza di servizi e dalla lacerazione di una trama urbana punteggiata dalla presenza di barriere, cancelli, fossati, arterie a scorrimento veloce. La disconnessione di questi contesti restringe l’ambiente vitale dei più giovani, riduce i loro spazi di incontro con il mondo, le possibilità di apprendimento, gli interessi e le motivazioni. «Il nostro quartiere è un circuito chiuso – ci ha raccontato tempo fa un giovane abitante del quartiere Perrino di Brindisi – Passi tutto il tempo per strada, con le stesse persone, facendo sempre le stesse cose». La chiusura del quartiere davanti alla città viene spesso rinforzata dalla chiusura speculare e stigmatizzante della città nei confronti del quartiere e dei suoi figli, in una sorta di spirale di svalutazione pubblica e autosvalutazione da parte degli abitanti stessi. In Germania li chiamano schlechte Adresse (cattivo indirizzo), luoghi maledetti della città nei quali dire l’indirizzo basta a dire tutto.
Le mappe che abbiamo realizzato in questi anni, tuttavia, suggeriscono una serie di risposte anche all’altro grande quesito che arrovellava Philip Dick: se questi mondi paralleli esistono, in che modo possono connettersi al nostro? Ovvero: è possibile rompere il circolo vizioso tra povertà, disagio sociale e istruzione? Come possiamo contrastare il peso dello svantaggio familiare a scuola? In che modo un bambino che cresce in condizioni familiari svantaggiate all’interno di una periferia sociale che ha poco o nulla da offrirgli può talvolta cambiare binario?
Le ricerche fatte in questo campo negli ultimi vent’anni sono molteplici e indicano che il legame tra condizioni di svantaggio ereditate e povertà educativa può essere spezzato. L’economista americano e premio Nobel James Heckman, ad esempio, ha dimostrato quanto il sostegno alla genitorialità delle famiglie più svantaggiate nei primi anni di vita del bambino – una fase cruciale per lo sviluppo dei più piccoli perché il fenomeno della fioritura e della potatura delle sinapsi è al massimo, e le strutture cognitive sono più ricettive e malleabili – possa contribuire ad abbattere i divari e ad ‘attualizzare’ un mondo alternativo fatto anche di successi. Una nozione cruciale in questo tipo di letteratura, a metà strada tra studi economici e psicologici, è questa: maggiore è il livello di competenze iniziali, maggiore è la resa dell’investimento nell’educazione. Chi impara presto, impara in fretta, ed è più pronto a immagazzinare di più e valorizzare meglio i futuri input nel mondo della scuola.
Le ricerche compiute sui servizi per la prima infanzia, d’altra parte, sembrano confermare l’importante ruolo svolto dal rapporto educativo con il personale specializzato di qualità nei primi anni di vita: chi ha frequentato l’asilo e la scuola materna possiede in media maggiori capacità di ascolto, concentrazione, creatività nel gioco, socializzazione degli altri, ottiene punteggi migliori nei test Pisa e Invalsi, e questa associazione è particolarmente forte se i bambini provengono da una famiglia più svantaggiata.
Un posto di primo piano tra gli alternatori di destini segnati spetta infine al libro. Secondo un’indagine promossa dall’OCSE, tra i diversi aspetti che possono influenzare positivamente gli esiti dei test PISA (occupazione, livello di istruzione, risorse educative, salute, beni posseduti, cittadinanza, ecc), il possesso di libri a casa sembra costituire il fattore più importante. Altre indagini ci dicono che i lettori in erba partecipano più volentieri ad altre attività culturali e occasioni educative. Anche in questo caso, tuttavia, la propensione alla lettura tra i bambini è fortemente condizionata dall’ambiente familiare e dalle abitudini dei genitori: tra i ragazzi di 6-14 anni legge il 66,9% di chi ha madre e padre lettori, e solo il 32,7% di chi non ha genitori lettori (Istat 2015). Alcuni di questi bambini resilienti, tuttavia, proprio grazie a quel libro letto, preso in prestito in una biblioteca scolastica o di quartiere, un giorno forse potranno intraprendere un viaggio in un mondo alternativo a quello dei genitori.
La prima edizione dell’Atlante si soffermava quasi esclusivamente sugli indicatori di povertà economica e materiale dei bambini (L’isola dei tesori, 2010). Dal 2102 abbiamo cominciato a dedicare mappe e approfondimenti all’accesso alla lettura (mappando con Andersen anche la rete delle allora 150 librerie specializzate nella letteratura per l’infanzia) e alle attività culturali. E a dire che, «per rimettere l’Italia nel verso giusto bisogna ripartire da qui: dai talenti sprecati di tanti ragazzi e ragazze, dalle distanze che continuano a separare territori e sistema educativo (e viceversa), dai ghetti delle povertà di istruzione. Ad esempio riaccendendo la parola ‘educazione’, restituendole luce e prestigio, e avviando una battaglia senza quartiere contro la recente, ma sempre più diffusa, leggenda metropolitana che con la cultura non si mangia. Tutti i dati che abbiamo illustrato finora mostrano il contrario: in Italia (e nei principali paesi europei) alti livelli di istruzione dei genitori si associano in media a migliori livelli di salute dei figli. Educazione e cultura rappresentano un fattore protettivo contro la mortalità infantile, l’obesità, le malattie, e costituiscono un antidoto contro la povertà» (L’Italia Sottosopra, 2013). A quella dichiarazione di intenti Save the Children ha fatto seguire negli anni nuovi rapporti e indicatori di povertà educativa, Punti Luce e programmi concreti di intervento, che hanno suggerito leggi, fondi dedicati al fenomeno e contribuito a una rinnovata mobilitazione della comunità educante.
La strada da fare è ancora molto lunga, ma grazie anche a Philip Dick, sappiamo che sociale e cultura devono lavorare insieme perché un universo alternativo è possibile.
Un’estate nel segno dell’educazione alla lettura, delle buone pratiche, delle iniziative a contrasto di un dilagante aumento delle povertà educative. L’abbonamento ad Andersen e tre numeri in regalo, per una riflessione lunga tutto un anno: UN ANNO DI ANDERSEN (decorrenza a partire da SETTEMBRE 2019) + MONOGRAFICO EDUCAZIONE ALLA LETTURA/CONTRASTO POVERTÀ EDUCATIVA (n. 364 – luglio/agosto 2019) + MONOGRAFICO DON MILANI (n. 344 – luglio/agosto 2017) + MONOGRAFICO EDUCARE ALLA LETTURA (n.320 – marzo 2015) = 69,00 euro anziché 107,00 –> Offerta valida fino al 9 agosto <–