Condividiamo oggi, per salutare Attilio Cassinelli (18 giugno 1923 – 6 giugno 2024), l’articolo che Walter Fochesato scrisse in occasione della copertina che l’artista realizzò per Andersen nel 2014. Ricordiamo inoltre, in occasione del suo ritorno in libreria con Lapis edizioni, il Premio Andersen ad Attilio nel 2017 “per aver saputo innovare, fin dai suoi esordi, il linguaggio dell’illustrazione italiana. Per una vivissima e profonda capacità di entrare in sintonia con il mondo dell’infanzia. Per una lunga, fruttuosa e intensa attività che prosegue ancor oggi con inalterata freschezza”.
La bellissima copertina per questo numero vuol’essere, in primis, un omaggio a un indubitabile maestro dell’illustrazione italiana. Quando alla metà degli anni ‘70 iniziai ad insegnare e a scoprire pian piano i territori della letteratura per l’infanzia i suoi albi erano molto diffusi nelle scuole, laddove, soprattutto, si tentava di procedere sulla strada del rinnovamento della didattica e del rapporto con i bambini. Certo qualche anno prima Rosellina Archinto aveva dato il la alla svolta radicale (e plurale) delle Emme Edizioni ma non bisogna dimenticare che il panorama era ancora dominato dal segno di Maria Pia e delle sue tarde seguaci: animismo spicciolo, l’inflessibile banalità dei buoni sentimenti e delle vecchie convenzioni, un segno zuccheroso e stereotipato, colori chiassosi. Aggiungiamoci pure la debordante produzione disneyana (non quella dei fumetti sia chiaro ma il merchadising legato ai cartoni animati). Questo passava allora il convento, una minestra lunga e insipida (Broddu lungu e seguitate, come si diceva della zuppa dei conventi). Risulterà chiaro che il tratto elegante e prepotentemente, volutamente sintetico di Attilio, rappresentasse una decisa novità, quasi una piccola rivoluzione.
Lui aveva avuto una formazione da grafico e questo avrà non poca influenza sul suo lavoro; poi gli capitò di disegnare dei pupazzi e degli animali in stoffa per una fabbrica di giocattoli. Il mezzo ovviamente condizionava la soluzione tecnica e le caratteristiche dei personaggi: si trattava in soldoni di mettere assieme i vari pezzi che li componevano ed ecco venire fuori delle forme quanto mai semplici, con una precisa tendenza alla geometrizzazione. A una Fiera del Libro di Bologna di parecchi anni or sono (1967 per la precisione) vennero notati dall’occhio attento di Renato Giunti a capo dell’omonima casa editrice. E “qui comincia l’avventura”, per dirla con Sergio Tofano. I titoli e le collane si moltiplicarono, ebbero successo anche l’estero, tanto che in Giappone se ne cavarono anche magliette, oggetti e quant’altro. Ma anche in Italia si arrivò a produrre, giusto per fare un esempio, deliziose scatoline con le carte del domino. Cassinelli legò per decenni il suo nome a quello della Giunti e a questa sigla è rimasto fedele (salvo poche cose per la Salani, se ben ricordo)*. Fra l’altro si può aggiungere che era il secondo Attilio a sbarcare in riva all’Arno. Il primo era stato Mussino che nel 1911 editò Le avventure di Pinocchio, di certo uno dei più importanti libri della nostra illustrazione. Potenza e curiosità dei nomi! Talché credo che in Giunti non abbiamo avuto grandi dubbi su chi puntare per l’edizione del centenario. Era il 1981 e ne venne fuori un volume in gran formato che a parer mio rappresenta l’apice del percorso creativo dell’autore genovese. Artista (è anche eccellente pittore), schivo e a dir poco riservato, da vecchio genovese appunto.
La figlia Alessandra (anche lei attiva nel campo delle arti) ne segue e ne valorizza, con amore e competenza, la produzione. Di recente mi raccontava un piccolo episodio per più versi emblematico. Lei stava frequentando un corso di Lele Luzzati. Quest’ultimo, con la consueta discrezione, le chiese se lei era figlia di quell’Attilio che molto stimava e che volentieri avrebbe conosciuto. Alessandra riferì la cosa al padre, lui ne fu lusingato e disse che sì anche a lui sarebbe piaciuto stringergli la mano e far due chiacchiere con Lele. Però non se ne fece nulla: “Maniman (l’ineffabile e quasi intraducibile espressione dei genovesi) disturbo, avrà un sacco di cose da fare. Un’altra volta lo chiamo, gli telefono”. Comunque tutto iniziò con i dodici titoli della “Collana del bosco”, su testi di Karen Gunthorp. Un’eccezione, peraltro, dato che Attilio è sempre stato ed é tuttora un autore completo. Debuttarono perciò i suoi riuscitissimi animaletti: limpidi, ludici, con quei tratti marcati, nerissimi, tutti tesi a mettere in rilievo le nitide e vitali campiture di colori. Un umorismo cordiale e lieve, una incontenibile propensione al racconto, un pizzico di candore, una “spontanea” leggerezza facevano il resto. Poi le sue erano vere e proprie favole (sono anche gli anni in cui Lionni realizza i suoi capolavori) che pur essendo debitrici della lezione classica disdegnavano ogni morale conclusiva. A parer mio la collana di maggior novità fu la “Senza parole”, albi oblunghi con storielle minime prese in genere dalla quotidianità e, appunto, rigorosamente senza testo. Tutto visto ad altezza di bambino, e qui stava la felicissima novità, salvo non voler riandare alla lezione di Beatrix Potter. Degli adulti, quando ci sono, si vedono soltanto le scarpe o, tutt’al più i polpacci robusti mentre la costruzione delle vicende postulava, esigeva un intervento critico da parte del piccolo lettore, favorendone capacità logiche e inferenziali. Ma questa semplicità era anche frutto di una attenta cultura figurativa, talché non è difficile rintracciare nei suoi lavori echi del graphic design internazionale o di alcuni maestri dell’affiche (Cassandre, come ha testimoniato una volta lo stesso Attilio).
Tornando a Pinocchio: la stilizzazione delle forme, un dinamismo di lontana matrice futurista, la ribadita e variatissima presenza di forme geometriche, un colore caldo, capace di sottolineare le caratteristiche dei personaggi e le svolte della storia ne fanno ancor oggi un’opera di assoluto valore e bellezza. Di certo – in una sterminata bibliografia – uno dei Pinocchi più vivi e ben riusciti degli ultimi quarant’anni. Fra l’altro lo stesso Cassinelli, come molti altri, si è confrontato anche un’altra volta con Collodi. Nel 1991 ce ne regalò una briosa versione in rima, mutando sensibilmente il suo stile: passando dalle tempere, sovente a collage, a delicati pastelli su carta con lievi ombreggiature. “C’era una volta un pezzo di legno,/ come ben vedi da questo disegno:/ un vecchio pezzo di legno di pino/ per fare la gamba di un tavolino”.
* Questa affermazione è legata al 2014. Qualche anno più tardi l’autore è stato riportato sugli scaffali dalla casa editrice Lapis, che ad oggi ha oltre quaranta titolo dell’autore a catalogo.