[da Andersen 263 – ottobre 2009]
In occasione del Festivaletteratura di Mantova, e aspettando il Festival Tuttestorie di Cagliari, abbiamo incontrato la scrittrice inglese.
Anne Fine, di persona, è proprio come te l’aspetti dopo aver letto i suoi libri: brillante e pungente. Attenta osservatrice delle persone e della società in cui viviamo, nei suoi romanzi racconta la famiglia e la scuola con realismo e un sense of humour tipicamente britannico. Talvolta può quasi infastidire per la sua capacità di scavare a fondo nei comportamenti umani, e per come mette in scena le nostre piccole guerre e perversioni quotidiane. Suona perciò davvero strano il titolo di un articolo pubblicato lo scorso agosto dal Times, in cui si dice che l’autrice “disapprova l’eccessivo realismo nella letteratura per l’infanzia”.
Basta citarlo, per ottenere una rapida smentita: «Non ho mai voluto criticare il realismo nei libri per ragazzi, né auspico un ritorno al lieto fine» dichiara Anne Fine. «Alcuni giorni dopo l’uscita dell’articolo, ho scritto una lettera al giornale per spiegare che, durante una discussione con un gruppo di assistenti sociali, ho semplicemente domandato che cosa leggono i bambini di cui si occupano e che effetto hanno su di loro i romanzi realistici senza lieto fine. Ho ricevuto molte risposte, una diversa dall’altra. E non riesco davvero a capire come da questo sia potuto nascere l’articolo del Times. Forse il problema è che in estate, quando i politici vanno in vacanza, qualsiasi cosa può diventare una notizia.»
Del resto, spiega ancora Anne Fine, romanzi come “Quella strega di Tulip” o “Qualcosa in comune” dimostrano che la frase attribuitale dal Times non le appartiene. E non si può nemmeno dire che l’autrice abbia deciso di cambiare direzione nei libri più recenti. «”The road of bones”, il mio ultimo romanzo» dice infatti Anne Fine, «possiede forse il finale più sconfortante che io abbia mai dato a un libro per ragazzi. Anche se spero che la distanza storica crei una sorta di protezione per i lettori (il romanzo è ambientato nell’Unione Sovietica degli anni Trenta, ndr.)»
Nella letteratura, realismo e speranza possono convivere?
Credo di sì. E la speranza è molto importante, soprattutto per i bambini di oggi. Quando ero piccola, i giornali erano difficili, noiosi e avevano poche fotografie. Le notizie al telegiornale duravano circa dieci minuti e c’erano pochissimi video e immagini. Ora in Gran Bretagna i giornali, pieni di fotografie, sono scritti in un linguaggio comprensibile a lettori di dodici anni. E tutto ciò che di male succede al mondo arriva ai bambini, a ogni ora del giorno. Mi sono chiesta più volte che effetto possa avere tutto questo sui nostri ragazzi. In particolare su quelli che non ricevono alcun tipo di protezione dai loro genitori. Forse sviluppano fin da piccoli una sorta di carapace, una corazza per proteggersi, e può darsi che da questo derivi anche la perdita di empatia che si osserva oggi in certi ragazzi. Perché, come dice Natalie in “Quella strega di Tulip”, “se al mondo ci sono così tante persone orribili, non sono sicura di voler più salire sugli autobus, o camminare per le strade, per paura di imbattermi in uno di loro.” Naturalmente non possiamo proteggere completamente i nostri bambini, ma dobbiamo essere consapevoli degli effetti che le notizie possono avere su di loro.
In “Quell’arpia di mia sorella”, l’ultimo libro tradotto in italiano, la famiglia viene raccontata attraverso la metafora della guerra. Crede che lo scontro tra adolescenti e genitori sia inevitabile?
No, non lo credo. In casa abbiamo avuto quattro adolescenti: le mie due figlie, la figlia e il figlio di mio marito. Due di loro sono stati adolescenti difficili, con gli altri è stato più facile. Penso che in fondo sia come una lotteria, una questione di fortuna. E non sono certa del perché succeda. Quando c’è uno scontro, di solito ci diciamo che fa parte della crescita, che è necessario, che in questo modo nostro figlio acquista sicurezza… Ma forse ci stiamo ingannando e lo scontro continuo non serve a nulla. Come la guerra, che scoppia senza una ragione. In questo senso credo che l’analogia con la guerra funzioni davvero molto bene.
Se dovesse dare una sua definizione personale dell’adolescenza, quale sarebbe?
Un momento di crescita interiore e di crescita intellettuale. E soprattutto un momento in cui emerge, quasi d’improvviso, uno smisurato senso delle proprie possibilità. La sensazione che ci aspetta una vita più grande, ora che siamo liberi dal bisogno infantile di rimanere sempre accanto ai genitori. Direi che è prima di tutto questo: l’improvviso ampliarsi di possibilità.
Nei romanzi per ragazzi il punto di vista del bambino o del ragazzo protagonista è centrale. Ma nei suoi libri è quasi sempre importante anche il punto di vista degli adulti. Perché?
Un tempo nelle famiglie c’erano sei o sette bambini, e i più grandi crescevano i più piccoli. I genitori erano troppo impegnati, anche soltanto con le faccende domestiche di ogni giorno, per dedicare tempo ai figli. Io non ricordo di aver mai avuto una vera conversazione con mio padre. Mi diceva cosa fare, questo sì, ma non c’era un vero dialogo. Ora si fanno uno o due figli, e i bambini sono meno liberi, perché ci preoccupiamo di più per loro. Così il rapporto con gli adulti diventa cruciale: il modo in cui i bambini si relazionano con i grandi e il modo in cui i grandi parlano con i bambini rappresentano una parte fondamentale della crescita.
A Mantova ha parlato con i lettori di “Perché leggere?”. Ricorda perché leggeva da bambina? E adesso è cambiato qualcosa nelle motivazioni che la spingono a prendere in mano un libro?
Da bambina leggevo per fuggire, per lasciarmi incantare, per curiosità. Volevo scoprire qualcosa della vita degli altri e dei loro pensieri. Volevo sapere se ero sola, e se ero l’unica a provare un determinato sentimento. A volte mia madre diceva: perché non esci in giardino a giocare? Ma io preferivo stare in casa, da sola, a leggere dei bambini che giocavano in giardino.
Adesso mi capita di leggere anche per informarmi, in particolare sulle culture diverse dalla mia, perché credo che sia importante provare a capire gli altri. Ma se parliamo delle ragioni essenziali per cui leggo, sono ancora le stesse: la fuga, la tranquillità e il silenzio.