[Questo articolo è apparso su Andersen n. 296 – ottobre 2012] – Negli ultimi anni si sono andate diffondendo lungo la penisola rassegne per tutti i gusti.
Viaggio semiserio tra la sociologia dell’organizzazione festivaliera e l’antropologia dell’autore ospite.
Un festival è come un bacio e il primo problema c’entra proprio con la bocca: lo do all’italiana o alla francese? All’italiana suona fèstival, alla francese festivàl. Perché l’accento in un festival non è secondario, ma rappresenta il suo gusto e la motivazione che dovrebbe spingere a visitarlo.
Il secondo dilemma è sul tema. Cosa ci inventiamo per attirare gente in un posto come il nostro? Snoopy diceva: «Ho scritto un libro bellissimo ma i titoli migliori me li hanno presi gli altri». Vale lo stesso per i festival, che ormai riguardano tutto: pensa a una parola e un festival c’è. Della zanzara, del tortellino, festival della malvasia a cui invitano scrittori, festival del libro a cui invitano avvinazzati di malvasia, festival della focaccia, del disco, del magnetofono a manovella, del cane, del gatto, della salamandra, del capellone, della brugola, del giallo, del noir, del rosa e del rosé, della mente, del cuore, dell’alluce, della teologia, della filosofia, della botanica, dell’artroscopia…
Ho la fortuna di aver visto festival diversi da angolazioni diverse: visitatore, invitato per laboratori, autore, accompagnatore di altri autori, curatore, grafico. Non mi sono fatto nessuna idea ma ne ho viste di tutti i colori.
La mia prima volta è stata a Cuneo. La prima volta che ti invitano, la prima volta che ti mettono al collo un pass con la parola “scrittore” capisci che quasi quasi potresti perfino crederci. La prima volta che qualcuno prenota per te una camera d’albergo, ti accoglie con un sorriso largo così, ti senti come nemmeno Stephen King. Forse non ce la dovremmo scordare mai, quella prima volta, quella prima volta in cui eri nessuno e ti hanno trattato bene: perché poi pensi di essere qualcuno, e magari ti senti in diritto di essere trattato così. Da ospite è tutto strano: ti telefonano a casa, ti spiegano il motivo, ti chiedono se ci sei. Fingi di controllare l’agenda ma tanto lo sai che sei libero, dai, non fare il furbo. Accetti. Quando arrivi, spesso nella camera d’albergo ti hanno sistemato una specie di writer-bag, una borsina di cotone che contiene al primo colpo d’occhio alcuni oggetti marchiati festival, la maglietta, il pass, ma soprattutto una piccola antologia di prelibatezze locali, marmellatini, mielini, gianduiotti, creme di asparagi, confezioni di squaquerone, torte paradiso, a seconda di dove sei. Cominci a sistemare quel bendidio sul tavolino dell’albergo come se facessi la vetrina del negozio e non sai se mangiare tutto subito e arrivare all’incontro con lo squaquerone sulla camicia, oppure portare a casa.
E intanto spuntano i buoni pasto che ti accompagneranno: il regolamento per usarli è lungo solitamente come il tuo ultimo libro. E poi c’è la lettera d’accoglienza del comitato organizzatore. Quando la scrivi, quando sei tu l’organizzatore, ci metti più cura possibile e il campionario delle parole più gentili e affettuose: siamo felici, benvenuto, è per noi un piacere, se vorrà, potrà, ci auguriamo… Poi da autore ti accorgi che la maggior parte delle lettere diventano piccole tovagliette americane sulle quali appoggiare la sbrisolona e il lambrusco che sei riuscito ad aprire in camera, per non sporcare il tavolino dell’hotel.
Poi si parla di soldi, e bisogna dire che nella stragrande maggioranza dei casi gli ospiti di un festival non vengono pagati. Si garantiscono tutte le spese, viaggio, alloggio, ospitalità. Ma denaro no. Quando un po’ di denaro invece c’è, non se ne parla mai direttamente: non siamo mica svizzeri che lo nominano con serenità. Noi ci giriamo intorno e lo chiamiamo “gettone”. Come se uno scrittore fosse una macchinina dell’autopista con una fessura (non voglio sapere dove) in cui infilare il soldino.
I soldi per chi organizza un festival sono sovente l’unico problema: le idee non mancano, manca la grana. Anzi, spesso all’inizio non ce n’è. Si finisce così a parlare per ore di fondi, di sponsor, di spostamenti nel bilancio. Per contrappasso probabilmente nelle riunioni di Moody’s o di Standard & Poor’s si parla tutto il tempo di novità editoriali, autori emergenti, musica indie…
A volte da scrittore ti senti un pacco postale: ti svegli nel cuore della notte e pensi a dove sei e perché sei lì, e subito non ti viene in mente nulla. Aveva ragione Ligabue quando cantava: «Ti mette davanti a un altro microfono, e qualche cosa succederà». Finisci in posti bellissimi. Posti che non ti saresti mai potuto permettere coi tuoi soldi (pardon, gettoni): ti senti lo Hugh Hefner della cultura, mancano solo le conigliette. A proposito dei nomi che girano di più, ce ne sono di tutti i tipi. Ho sentito anni fa Gene Gnocchi dire «mi è successa una cosa strana: sono stato a un festival dove non c’era Moni Ovadia». Oggi forse Odifreddi e Augias si contendono il cinturone di prezzemolini.
Ai festival ci si saluta come si fa in montagna, anche se non ci si conosce. Alcuni ti parlano per venti minuti e ti accorgi da alcuni dettagli che non hanno letto bene il tuo nome e credono di parlare a un altro. Andrea Valente in giro per Mantova col pass da autore è stato fermato da un tipo che gli ha chiesto: «Ma tu sei qualcuno?» La domanda è di una bellezza infinita.
Da curatore ti importa chi inviti, e la sua storia: quando chiedi quattro righe di biografia ne vedi di tutte. Persone che si autodefiniscono “intellettuali”, “agitatori culturali” (una specie di minipimer umano?), “operatori del benessere” (un gigolò?), oppure mandano otto pagine di curriculum dove tra gli eventi c’è anche quando hanno fatto il padrino alla cresima del nipotino. Da curatore è bello fare colazione con gli autori. È bello farla con Michela Murgia, che ti fa sorridere anche solo per come ti guarda, o con Carlo Lucarelli che è affettuosissimo con i bambini. Alcuni autori ti sorprendono in bene, altri vorresti non averli mai conosciuti. Alcuni fanno il botto dopo che li hai invitati tu e pensi: ci abbiamo preso. Altri, statunitensi, aprono la finestra dell’hotel che dà sulla piazza all’una di notte e si mettono a urlare “terün” a squarciagola, perché “terün” è l’unica parola che hanno imparato durante la giornata, accidenti a chi gliel’ha insegnata. Da curatore scopri i tic e le delicatezze, le sorprendenti umiltà di grandi autori e le grandi pacchianerie delle mezze calzette. Scopri piccole bellezze: sapete che Tata Lucia usa Bullock, l’antifurto con le palle?
La meraviglia di un festival è nell’aria che respiri, non è solo nel programma. Qualcuno chiama qualcosa “festival” quando festival non è. Mettere in fila una serie di incontri non è fare un festival. C’è la differenza che corre tra proiettare le foto di una montagna e andarci. È l’aria che senti a fare la differenza. Così penso sempre di più che un festival non sia una questione di cuore: quello serve a emozionarsi. Ma sia una questione di polmoni, di aria nuova che vuoi respirare tu prima di tutto.
Il lato erotico del festival comincia quando fai l’accompagnatore di altri autori, perché chi organizza te lo chiede spesso così: «Te lo fai tu Bruno Tognolini?» E tu per un attimo resti spiazzato. Così nel tempo “mi sono fatto” Uri Orlev, Abraham Yehoshua, Roberto Denti (scusa, Gianna), Bob Geldof, Giusi Quarenghi, Hugo Hamilton, Capitan Fede Poggipollini, tutta la redazione di Popotus e perfino Jutta Richter. E hai sempre qualcosa da imparare. Impari la profondità, impari una parola che non avresti usato, impari quel feeling tra autore e lettori, piccoli o grandi. Impari la dolcezza dell’Emanuela Bussolati, impari l’urlo che viene dall’altra stanza e ti dicono che c’è Luigi Dal Cin, impari la risata che senti più in là e dicono che è in azione Valente.
Alla gente che viene a sentirti vorresti sempre dire grazie. Così come ai volontari: chi più, chi meno, i festival più belli sono frutto di milioni di ore di volontariato. Vorresti abbracciarli uno a uno, vorresti dir loro grazie così tanto da rischiare una denuncia per molestie: sono loro a far cultura, per davvero, più del primo intellettuale che da solo farebbe ben poco.
E poi c’è il big che vuole una stanza per la seduta quotidiana di yoga, o la vasca con le ninfee, o trenta bottiglie di barolo in camera (giuro, è successo) e c’è la fotografa che viene a seguirti e vorrebbe farti una foto mentre tieni la mano sotto il mento e tu le dici che la mano sotto il mento se la può mettere lei, c’è la visitatrice infuriata che sbraita «il vostro è un festival comunista, sono anni che non invitate Oriana Fallaci», c’è la tipa raccomandata che a bruciapelo ti chiede «ma non potremmo chiamare Gershom Scholem?» E non sai se dirle che è morto nel 1982 o lasciarla nel suo bellissimo dubbio. Ci sono i pannelli in giro per la città che ti ricordano che tutto è una festa e che da grafico chiami “arredo urbano” per dare un tono al tuo mestiere, c’è la Digos che ti chiede di fare una riunione perché il tuo incontro parla di ebrei e non si sa mai, c’è Shel Shapiro che ti abbraccia, i nuovi autori emergenti della Holden (il cui stile letterario comincia e finisce nei loro foulard), i tanti grazie che dai, che ricevi, che sinceramente spedisci, dopo, quando tutto è finito.
E quando tutto è finito te ne vai a casa con un’aria da fine camposcuola, i volontari smontano il palco, metti il pass nella valigia che disferai a casa con calma. Vorresti che tutto ricominciasse subito, domani, adesso, dai, facciamolo ancora. Sui vestiti senti ancora gli abbracci, le parole. E il profumo del festival.