Articolo di Roberto Denti, pubblicato su Andersen, n. 258, aprile 2009, in occasione della scomparsa di Giampaolo Dossena.
Nella cultura italiana degli ultimi cinquant’anni Giampaolo Dossena era un personaggio strano, una specie di dottor Jekyll e Mr Hyde, di cui si parlava soprattutto per la sua competenza, che non aveva uguali, nel campo dei giochi (per i grandi, di carte, da tavolo, di parole, linguistici, per i bambini, ecc..). Eppure la maggioranza dei libri da lui pubblicati, a cominciare dal primo scritto in collaborazione con Mario Spagnol nel 1959 all’ultimo del 2007 riguardavano profondi studi sulla letteratura italiana, che conosceva al di fuori delle regole accademiche e di cui scriveva in modo estremamente piacevole dimostrando come ci si può divertire anche affrontando temi che esigono il massimo rigore dottrinale.
Ero abbastanza in confidenza con Giampaolo Dossena che conobbi all’inizio degli anni ’60 tramite il comune amico Danilo Montaldi: tutti e tre nati a Cremona: io ho lasciato la mia città nel 1946 (per non fare più ritorno), Montaldi non l’aveva mai abbandonata, Dossena per qualche decennio visse a Milano, ma negli ultimi anni non sopportava di vivere in una metropoli dove si fa fatica a respirare e dove il rapporto umano diventa sempre più difficile.
Giampaolo sapeva che per i giochi di qualsiasi tipo ho una forma di idiosincrasia e quindi i nostri rapporti si basavano sui suoi studi di letteratura. La differenza di sei anni fra Dossena (1930) e me (1924) non era molta, ma sufficiente per aver seguito strade diverse quando la seconda guerra mondiale impose scelte inequivocabili a chi era in età di doverle fare. Nel mese di settembre 1943 (data dell’armistizio da parte del Governo del Re) Giampaolo aveva tredici anni e io diciannove. Io non avevo che due strade: aderire alla Repubblica Sociale (Mussolini e i nazisti) o passare dall’altra parte, fra coloro che per libera scelta aderivano alla lotta contro un sistema di potere violento e inaffidabile. Ne abbiamo parlato qualche volta con Dossena che si rammaricava di non aver avuto l’età “giusta” per una necessaria decisione. In compenso scherzavamo perché io avevo conosciuto molto bene suo padre maestro elementare dipendente da mio padre suo Direttore Didattico. Mi piacque molto quando pubblicò per le edizioni Feltrinelli il testo critico di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Gli chiesi perché tanta fatica filologica per un libro purtroppo passato di moda.
Mi rispose che al mondo bisogna divertirsi e il testo di Giulio Cesare Croce, grande esempio di letteratura popolare dagli inizi del 1600, era un raro esempio di un protagonista di talento, di spirito e di arguta saggezza. Credo, però, che i libri più significativi per capire la passione di Dossena per la letteratura rimangono i quattro volumi della “storia confidenziale della letteratura italiana”: il primo dalle origini a Dante, il secondo l’età del Petrarca, il terzo il Quattrocento, il quarto e ultimo il Cinquecento e il Seicento. Questo studio si interrompe nel 1994 perché non ebbe il seguito di lettori che l’autore e l’editore (Rizzoli) si aspettavano. Eppure la Storia della letteratura italiana di Dossena è una fonte infinita di informazioni e di giudizi critici: ciascun autore o periodo letterario è inquadrato letterariamente e sociologicamente nella sua epoca con continui rimandi a opere precedenti, contemporanee e susseguenti che riescono a dare nuova luce e nuove suggestioni a una materia legata, in genere, a compendi di tipo scolastico.
Nella sua duplice sfera di interessi, Dossena aveva un filo che legava le due materie, così lontane l’una dall’altra: l’ironia basata sul suo spirito spesso dissacrante. L’ultima volta che gli ho parlato è stato per telefono ma era già malato e stanco. L’occasione della chiacchierata era il suo libro Mangiare banane, una raccolta di brevi scritti che mi aveva fatto mandare dall’Editore (Il Mulino) Pagine piene di spunti, di osservazioni, di provocazioni. Gli feci osservare che a pag. 68 aveva scritto nel racconto “Liquori”: “Non bisognerebbe più leggere niente” Perché? La spiegazione fu semplice: piuttosto di certi libri, niente libri. Dossena poteva farlo perché la sua cultura gli permetteva questo ed altro. Infatti nel capitolo dedicato ai “Gelsi” descrive un’attività della campagna della bassa Lombardia, la bachicoltura ora scomparsa e con lei sono spariti anche i filari di gelsi. Scrive Dossena: “Quando torno in città voglio cercare un libro sulla bachicoltura. Ci deve essere anche un qualche poemetto del solito Settecento. Se non lo leggo io adesso non lo legge più nessuno”: Vero, senza dubbio. Con Giampaolo è scomparso uno degli ultimi Saggi della nostra epoca, impossibile da sostituire.
Sostieni la rivista Andersen: sottoscrivi o rinnova un abbonamento.