È mancato Riccardo Damasio, uomo di ampia cultura e di attiva riflessione pedagogica, un amico di Andersen. Un’amicizia nata nel confronto sulle pratiche educative e sull’importanza di tutti i saperi da offrire all’infanzia, libri e lettura compresi, fin dalla più tenera età. Lo ricordiamo con un suo articolo dal nostro archivio, uscito sul numero monografico dedicato alle povertà educative:
L’irruzione del concetto di Povertà educativa nel recente dibattito pedagogico ha avuto il merito di risvegliare un’attenzione nuova per il ruolo centrale dell’educazione nello sviluppo delle comunità, locali e nazionali. È un concetto che rimanda a una dimensione plurale del fare educativo, legato non solo alle istituzioni tradizionalmente preposte, prima di tutte la scuola, ma alle comunità intere nella loro complessità. Dopo una lunga fase culturale dominata da “passioni tristi”, questa nuova attenzione all’ educazione infonde una nuova speranza, ma interroga sull’idea di futuro e di ricchezza che vogliamo promuovere.
Quale ricchezza produce il “tempo perso” del gioco, della chiacchiera, della convivialità? Come si misura la ricchezza prodotta da un’amicizia costruita in un momento di incontro a volte casuale? Quanto “spreco” di energie e lavoro per curare la relazione con piccole situazioni locali, a volte con una sola mamma o papà, che chiedono un momento per loro? La sola metafora economica non è sufficiente per comprendere in pieno il senso di alcuni aspetti chiave della relazione educativa che sembrano richiedere invece una d i versa narrazione dell’educazione. Una città può essere letta come un grande sistema educativo, fatto di istituzioni formalizzate, ma anche di relazioni informali e talvolta addirittura occasionali, che rendono la vita dei bambini più o meno ricca, a seconda di dove si abita con la propria famiglia, di quanto si riesca a spostarsi sul proprio territorio, e nella città nel suo complesso, di quante risorse si hanno a disposizione, di quanto la propria famiglia sia consapevole dell’importanza dello sviluppo educativo. La metafora utilizzata per narrare queste istituzioni e la città nel suo complesso può avere forti ripercussioni sulle azioni concrete da mettere in atto.
L’idea che vorrei proporre qui è quella che la scuola possa essere letta come una piazza della città. Questa idea mette al centro dell’attenzione alcuni aspetti che rimangono spesso nascosti dalla narrazione dominante oggi, di derivazione aziendalistica. Quali aspetti della scuola la metafora della piazza ci permette di mettere in risalto? Quali conseguenze ne derivano nell’idea di città e di educazione? Il primo elemento è quello della dimensione pubblica e collettiva dello spazio urbano. Una dimensione che è immediatamente politica: al centro della polis c’è la piazza e la metafora svela subito la sua polivalenza. È nella piazza che si agisce l’autoritarismo, l’azione disciplinatrice e repressiva del potere, ma è pur sempre nella piazza che si fa la rivoluzione e si aprono nuove forme di resistenza.
È sempre in piazza che una comunità si ritrova , nei momenti di festa e nei momenti di lutto, nelle situazioni formali e in quelle spontanee, perché la piazza rappresenta per lo spazio di tutti. Chiudere una piazza alla disponibilità dei cittadini è sempre una ferita inferta all’intera comunità. Piazza e politica sono strettamente collegate, ma non è così forse anche con la scuola? La scuola vuole e deve essere una piazza inclusiva, una delle poche istituzioni aperte universalmente a tutti, dove singolarmente viene valorizzato l’ apporto di ognuno.
Non si tratta di utopia, ma di concreta capacità della scuola di rappresentare per tutti un terreno comune e nello stesso tempo di custodire e valorizzare le specificità dell’apporto di ognuno. La scuola come piazza sarà allora necessariamente una scuola aperta: aperta al territorio che la circonda , per accoglierne i bisogni e valorizzarne le opportunità, un luogo destinato ad accogliere una cittadinanza più ampia e variegata di quanto talvolta è pronta ad aspettarsi. Essere piazza è un rischio, ma anche una grande occasione. Il rischio della confusione, del tumulto incontrollato, dell’affastellarsi delle voci è sempre presente: la piazza necessita di regole, che ne salvaguardino la funzione primaria di spazio di tutti. La difficoltà sta nell’individuare un sistema di regole e di modalità di convivenza non coercitivo e autoritario, ma ordinato e condiviso: ci vuole tempo, pazienza e una tessitura continua delle relazioni, che non sempre emerge con evidenza. Ma i processi educativi sono proprio questo: una costruzione continuamente ripresa e mantenuta di relazioni, i cui effetti si vedono solo a distanza di molti anni.
La piazza, come luogo di tutti, necessita di cura. Prendersi cura dello spazio è prendersi cura delle persone che lo sentono loro. Questo rimanda alla dimensione della manutenzione, che in termini pedagogici si può tradurre come curricolo implicito. La scuola trasmette i suoi valori educativi attraverso segnali che non sono immediatamente esplicitati, ma tuttavia evidenti: la cura e la pulizia degli ambienti, la personalizzazione degli spazi, l’attenzione all’accessibilità, la segnaletica e la comunicazione delle esperienze che vi avvengono. Curare lo spazio è un gesto educativo fondamentale. Questa manutenzione tuttavia sembra un gesto semplice, naturale, così facile da accorgersi della sua importanza solo quando viene a mancare: la pulizia dello spazio, la cura estetica della comunicazione non sono semplici abbellimenti, ma elementi essenziali del progetto educativo, della scuola e della città. La città può essere narrata a partire dalle sue piazze (o dalle sue scuole).
Spesso si descrive la città a partire dal suo reticolo di strade, ma forse è più interessante pensarla come un insieme di spazi vuoti collegati fra di loro. Questi spazi vuoti sono calamite attrattive dei suoi cittadini: come le piazze sono dei vuoti che si riempiono del senso della vita collettiva, le scuole sono i centri nevralgici della conoscenza e della crescita delle generazioni. Si può passare molto velocemente , o molto lentamente da una piazza all’altra, ma comunque la piazza rappresenta sempre una sosta, un tempo dedicato. Si va a scuola come si va in piazza e ci sono scuole diverse, tutte accomunate da questa identica funzione di punteggiatura del tempo della vita dei bambini e delle famiglie. Le piazze, come le scuole, sono tutte diverse e ogni città ha le sue piazze di riferimento. Ci sono piazze che sono piazzali, destinati a raccogliere grandi numeri, a ospitare movimenti di massa imponenti: è facile riconoscerle come centrali nelle città, spesso sono riferimento, da molto tempo, di ampie comunità cittadine, se non di tutta la città intera. In queste piazze è difficile appartarsi, tutto avviene in una dimensione pubblica molto esplicita, dove la c o n vivenza è regolata in maniera molto evidente.
Talvolta sono piazze un po’ fredde, troppo grandi per favorire il contatto personale, ma proprio perché sono grandi si formano dei sottogruppi, degli angoli di incontro, delle situazioni più informali, nascosti nelle pieghe delle regole generali. Ci sono scuole così: scuole spesso molto grandi, veri e propri monumenti, che rappresentano punti di riferimento stabili nelle generazioni per intere comunità locali. Ma ci sono anche piazzette, slarghi, campetti, dove il reticolo delle strade di città sembra segnare un momento di interruzione, come una sospensione capace di accogliere i corpi in un abbraccio più caldo e intenso. Sono spazi vuoti, dove il traffico non gira, dove ci si guarda in faccia da vicino. Queste piazze sono diffuse, capillari, a volte addirittura nascoste ai più e conosciute solo dai loro frequentatori abituali. Trafficate di gente diversa, a volte caotica e disordinata, ma vivace e capace di innovazione.
Non sempre belle, queste piazzette sono però molto disponibili a cambiare continuamente, a seconda di chi le abita. Ci sono piazze che sono delle ve re “ bomboniere”, quasi gioielli di architettura e di raffinata eleganza. Un tuffo al cuore quando ci finisci, quasi per caso, nei meandri della città vecchia. Non sono quasi adatte ad essere abitate, ma solo ammirate, quasi quinte di teatro. Ci sono piazze adatte al gran mondo. Piazze (scuole) nate da un progetto pensato per attirare i flussi di ricchezza e la gente più influente. Sanno di essere al centro e lo ostentano. Non sono le piazze più calde e accoglienti, ma sono attrattive, potenti. Viceversa ci sono le piazze – giardino, luoghi nei quali la città si apre alla natura. Piazze (scuole) che sono giardini, oasi di verde in mezzo alle case. Qui il tempo scorre a velocità diversa. Si sperimenta una libertà inusuale. La città è fatta di queste piazze : ogni quartiere, ogni vecchio borgo, anche quando riunito a forza in u n’unica città, si riconosce nella sua piazza, nella sua scuola. Solo così si può capire da dove nascano le battaglie delle comunità per la salvaguardia delle proprie scuole a fronte dei piani di razionalizzazione che si impongono sempre più frequentemente.
Le scuole, come le piazze, sono per questo i luoghi più conservatori della città: nulla può essere modificato senza il consenso, difficile da ottenere, degli abitanti, pronti a difendere a ogni costo quanto si tramanda da generazioni. Allo stesso modo la scuola è, come la piazza, il luogo per eccellenza dell’innovazione, dove è proprio dall’incontro, talvolta inaspettato e imprevisto che nascono nuove idee e nuove proposte, anche molto conflittuali con lo status quo. Le scuole sono dunque la ricchezza di una città. È da questa constatazione che è necessario part i re per ragionare di azioni che contrastino la povertà educativa. È un’idea di ricchezza e povertà non immediatamente di tipo economico (anche se la dimensione economica è spesso collegata), che rimanda i n vece al bisogno di relazioni felici, di salute corporea e psichica, di conoscenza e del piacere che essa procura.
Questo può fare dunque la politica pubblica: partire dalle proprie ricchezze, metterle a disposizione, renderle accessibili, potenziarne il ruolo di traino della comunità intera, anche attraverso nuovi patti con i propri cittadini. È anche a part i re da questa metafora guida che si sono attivati sul territorio genovese alcuni progetti a contrasto della povertà educativa. Progetti che si propongono di apri- re la scuola a nuovi incontri, di potenziare la partecipazione delle famiglie attraverso occasioni inusuali di utilizzo degli spazi e dei tempi, di raccordare la scuola con la strada. Il percorso è lungo e tutto da esplorare.
[Questo articolo è uscito su Andersen n. 364 – luglio/agosto 2019. Le immagini sono tratte da Il Pavee e la ragazza, Uovonero]
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