L’articolo di Vera Salton, che esplora i luoghi di socialità e silenzio dell’infanzia, è pubblicato su Andersen n.375 e rientra nel Dossier “Dentro casa e all’aria aperta”, tema esplorato anche dal numero monografico Andersen n. 374 luglio/agosto 2020. Abbonati alla rivista Andersen entro questo mese e ricevi in omaggio il monografico estivo (Andersen n. 374) e il numero di settembre (Andersen n. 375).
Lo spazio in cui ci muoviamo, nei suoi mille modi di essere inteso è prima di tutto un sistema di riferimento; lo spazio è anche un tempo delimitato in un periodo, è di per sé un concetto estremamente culturale, segnato e codificato da un gruppo sociale e che muta con il mutare delle abitudini di quello stesso gruppo.
Abbiamo attraversato mesi particolari, e in un momento in cui è difficile fare previsioni di scenari diviene forse più interessante interrogarsi su come gli spazi più prossimi possano diventare luoghi di infinite possibilità piuttosto che prigioni.
Abbiamo visto di fronte a noi un tempo che è stato il recupero degli spazi, la futura rilettura di luoghi abbandonati, la pacata e decisa resilienza della natura, la possibilità di vivere e affrontare un contesto prossimo con uno sguardo differente.
Lo spazio dell’infanzia si muove necessariamente in un rapporto di interdipendenza con quello del mondo adulto di riferimento: non potendo sperimentare la totale indipendenza logistica il bambino è comunque legato nel suo esperienziale all’organizzazione di vita dell’adulto, con la grande capacità adattativa, però, di trovare strategie per nutrire l’immaginario. Il gioco imitativo porta con sé valori di grande importanza simbolica: in casa il bambino ha la possibilità di un mondo di esperienza e anche in questo la responsabilità narrativa dell’adulto è altissima e dipenderà dalla sua capacità di scegliere e scremare le parole che definiscono lo spazio. La lingua costruisce il nostro immaginario percettivo: se il bambino sa di essere “a casa” sarà già diverso da “in casa” o ancor di più “chiuso in casa”.
Chiuso in casa, nella costrizione delle mura, nella fatica di uno sguardo dell’adulto che deve al contempo concentrarsi sull’infanzia e sul lavoro, nel limbo della mancanza di orizzonte di tempo, nella narrazione delle possibilità mancate che tende a fare l’adulto, l’orizzonte delle possibilità si riduce, e dunque anche quello dell’immaginario.
A casa si è nella tana, senza nessun nesso costrittivo, e la tana in quanto luogo protetto è il luogo ideale per lasciarsi andare a qualsiasi tipo di esperienza, persino quella di creare una tana nella tana, luogo altro, dal forte valore simbolico, che consente di tracciare un confine tra sé e gli altri e partecipa quindi al processo di costruzione dell’identità del bambino.
È un luogo personale, privato, custode della vita segreta dei piccoli. Solo poche persone possono accedervi e, rigorosamente, solo dopo aver chiesto il permesso. La tana prende la forma del covo come di nuovi mezzi di evasione di cui il bambino è condottiero, sia che si guardino libri rivolti alla primissima infanzia come le avventure di Miiaau (Bohem, 2010) o che si sfogli Facciamo che, (Orecchio Acerbo, 2016) che già dal titolo porta con sé la formula magica del gioco simbolico imitativo. Qui i bambini si muovono nelle diverse stanze della casa come in un puzzle senza tempo; l’albo è dimostrazione dello straordinario talento di Gerard Dubois di saper cogliere la genialità dell’infanzia, la psiche e la profondità di un sentire, almeno quanto Enfantillages, pubblicato in Francia da Rouergue nel 2015, vive della potenzialità ironica nel dicotomico modo del mondo adulto di guardare l’infanzia come a qualcosa al contempo di innocente e pericoloso.
Sia esso in casa o in giardino, lo spazio della tana prevede lo sviluppo di un pensiero narrativo coerente con lo spazio intorno, che utilizza abilità che andranno via via affinandosi nel corso degli anni, orientamento spaziale, problem solving e capacità di previsione, la possibilità di sperimentare la frustrazione ma anche la capacità di affrontare i problemi, e di uscire dal gioco con nuove forme di fiducia, nella capacità di risoluzione come in quella parimenti importante di saper chiedere aiuto. Appena più grandi di Miiaau i bambini di Re Valdo e il drago (Mondadori, 2015) affrontano la vita del cavaliere e la grande sfida di un immaginario terribile drago, e come diceva Lev Vygotskij, superano con l’immaginazione i limiti delle proprie possibilità di azione concreta e reale.
Se ancora prendiamo lo splendido albo uscito lo stesso anno di Linda Sarah e Benji Davies, Sulla collina (EDT Giralangolo 2015) il gioco di invenzione è anche la chiave per le prime risoluzioni di conflitti, gelosie, disequilibri. In un certo senso la ricchezza di questo momento è la situazione di pausa in cui si trova il bambino rispetto alle richieste del mondo adulto; può creare nuove e infinite combinazioni perché, come direbbe Jerome Bruner, non è più sottoposto a pressione funzionale. Della scuola può tenere il meglio in memoria e attuare il gioco simbolico come aiuto a rappresentare mentalmente persone e oggetti, indipendentemente dalla loro presenza. È, insomma, evocativo: immaginiamo dunque quanto potenziale possa avere in questo momento in cui c’è bisogno di evocare una dimensione di vita distante, richiamando le situazioni che il bambino conosce e che in quel momento non può esperire.
Dai giochi di Moulin Routy ai libri di Tourbillon (Giochiamo alla maestra, Tourbillon, 2013), dai racconti di Astrid Lindgren dove Martina e la sorellina giocano alle narrazioni che sono state loro insegnate come Mosè salvato dalle acque con conseguenze catastrofiche, ai peluches messi in fila da tanta letteratura per l’infanzia, dal celebre Winnie the Pooh in poi, l’imitazione del mondo della scuola è profonda e presente, ma accanto a essa si muovono ancor più potenti i mondi dell’immaginario, testimonianza indiscussa che una volta rassicurato sulla propria capacità di gestire il mondo del quotidiano il bambino si sente libero di varcare le soglie dell’inesplorato e del magico.
Cresciuti, le case possono essere meravigliosa trasposizione del sé come della propria capacità di pensiero magico basti pensare a romanzi come Un ponte per Terabithia di Katherine Paterson (pubblicato da Piemme nel 1997, poi da Mondadori nel 2007), alla magica ruota degli elfi in fondo al giardino dell’omonimo romanzo di Janet Taylor Lisle (La ruota degli elfi, Salani, 1993) fino alla casa delle fate costruita in un posto segreto nell’ultimo meraviglioso romanzo di Lynda Mullaly Hunt (Non è colpa della pioggia, Uovonero, 2020).
La tana è al contempo luogo sociale e luogo del silenzio, come ritrovata pratica anche nelle situazioni più piccole di ritagliarsi un mondo proprio, un silenzio fatto di fughe da rivendicare nel mondo delle possibilità, e così l’immaginario nutre il quotidiano anche di forme mute. Anche fra le pagine troviamo forme di evasione che non necessitano di parole, come Nel giardino dei sogni (Carthusia, 2020), ne Il grande viaggio della piccola Angelica (Gallucci, 2010), in Nel mio giardino il mondo (Terre di Mezzo, 2019). In un tempo in cui l’adulto si sente confinato fra le pagine si sperimenta anche la grazia del confine, quella che fa di oltre il confine, parafrasando McCarthy, un insieme di terre da scoprire, o meglio riscoprire, con nuovi occhi.
Nel silenzio di una pagina che non ha bisogno di parole possiamo allora seguire una Cappuccetto Rosso che, a mano di un adulto percorre piccoli tratti di strada raccogliendo fiori selvatici, resistenti, piante vagabonde come le chiama il paesaggista moderno, e cogliendone la perfetta bellezza (Fiori di città, Pulce, 2020). Possiamo metterci in ascolto della natura selvatica come suggerisce Ortica, nell’ultimo volume della collana “PiNo” di Topipittori dove Marina Girardi compie capriole fra le pagine, fa rotolare nell’erba, sentire la natura, dare valore al proprio sguardo su un insetto o a un’erba. O infine cullarci in un libro che proprio questo tempo sospeso ha visto nascere, giunto in libreria alla vigilia della chiusura e rimasto quieto, ad aspettare un tempo in cui dare quello che porta nel titolo, un Piccolo giardino di poesie. Rizzoli pubblica questa lieve carezza sull’infanzia di Robert Louis Stevenson, autore che in fondo conosce la saggezza del pensiero bambino, aprendo il canto di Terre Straniere con una domanda e la risposta data dallo straordinario imperativo dell’infanzia “Sul pruno chi poteva arrampicarsi? Sol io: quando sei piccolo è da farsi”.
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