A colloquio con la scrittrice americana, pluripremiata dai critici e amata da molte generazioni di lettori, autrice dell’acclamata saga di The Giver.
Pochi autori hanno influenzato l’odierno panorama letterario per ragazzi come Lois Lowry. Classe 1937, Lowry inizia la sua carriera di scrittrice alla fine degli anni ‘70, dopo aver lavorato come giornalista e fotografa. Inizialmente nota al pubblico americano soprattutto per la serie umoristica Anastasia Krupnik, raggiunge il successo internazionale con Number the Stars (1989, in Italia: Conta le stelle), incentrato sulla persecuzione degli ebrei in Danimarca, e con il romanzo distopico The Giver (1993). Entrambi i romanzi vincono la Newbery Medal, ma è soprattutto la società descritta in The Giver ad affascinare i lettori: un mondo apparentemente perfetto, dove qualsiasi differenza che possa causare turbamento, dall’aspetto fisico alle emozioni stesse, è stata cancellata grazie a un mix di ingengneria genetica e sociale e dove le persone hanno scelto di dimenticare il passato, consegnando la memoria della comunità alla custodia di un Accoglitore che, sobbarcandosi il peso delle esperienze passate, diviene l’indispensabile consigliere dei primi cittadini ogniqualvolta vi sia una decisione particolarmente difficile da prendere. Attraverso gli occhi di Jonas, designato al compimento dei dodici anni come successore dell’Accoglitore di memorie, Lowry mette in luce il volto più subdolo del totalitarismo, che promette sicurezza e stabilità al prezzo della libertà individuale, e affronta temi complessi quali il razzismo, ravvisabile nella paura della comunità per tutto ciò che è diverso, l’opposizione all’ordine costituito, e perfino l’eutanasia; motivo per cui in patria il libro ha suscitato reazioni opposte, attirandosi in egual misura elogi e critiche.
Negli ultimi anni il mondo di The Giver è diventato più vasto e complesso grazie ai successivi Gathering Blue (2000, in Italia: La rivincita) e Messenger (2004, in Italia: Il messaggero), che esplorano ulteriormente le tematiche presenti nel primo libro, con trame collegate però solo in parte alla storia di Jonas.
Con Son, uscito negli Stati Uniti a ottobre, Lowry ha ripreso in mano le sottotrame rimaste aperte nei volumi precedenti e la serie, a lungo considerata una trilogia, ha infine trovato la sua conclusione.
Così dopo l’annuncio in anteprima all’ultima Fiera di Bologna, e dopo aver visto una tranquilla signora (che proprio in quel giorno compiva settantacinque anni) diventare un fiume in piena di fronte all’entusiasmo e all’interesse dei ragazzi durante l’incontro con le scuole al Palazzo del Baraccano, è arrivato il momento di incontrare Lois una seconda volta, per parlare un po’ del traguardo appena raggiunto nell’attesa dell’edizione italiana (prevista in primavera) e riflettere sulle molte sfaccettature di una saga affascinante e di ampio respiro.
Cosa ti ha ispirato nella stesura di The Giver? Nel tuo discorso di accettazione della Newbery Medal hai citato diversi elementi, potresti parlarcene?
Mi piace paragonare la memoria a un fiume, e i singoli ricordi ai suoi affluenti. Nel caso di The Giver ce ne sono molti, ma uno dei più importanti riguarda un episodio della mia infanzia. A undici anni mi ero trasferita a Tokyo con la mia famiglia; mio padre lavorava nell’esercito e noi vivevamo in una piccola enclave americana al centro di questa enorme città giapponese. Quando i nostri genitori ci avevano annunciato il trasferimento io mi ero aspettata di dormire sui tatami, mangiare con le bacchette, indossare dei kimono. Ero curiosa ed eccitata all’idea. Invece mi ritrovai in questa sorta di replica di un paesino americano, con una scuola, un emporio, una piccola chiesa, perfino un cinema, che ovviamente proiettava solo film americani. Fu piuttosto deludente! E quando mi avventuravo fuori con la mia bicicletta, vedevo una realtà completamente diversa; non la capivo, ma mi incuriosiva e la desideravo. Quando anni dopo chiesi ai miei genitori il perché di quella scelta, ne furono piuttosto sorpresi. Non ci avevano mai pensato realmente; vivere in quella piccola comunità americana per loro era scontato: perché era familiare, sicuro. Credo che quello sia stato l’inizio. Il riflettere sul fatto che molte persone preferiscono rinunciare a sperimentare ciò che è nuovo o diverso, in cambio della sicurezza. A differenza di Jonas, che in The Giver scopre che c’è un Altrove, e alla fine tenta di raggiungerlo.
Uno dei temi principali di The Giver, forse il tema portante, è la relazione fra memoria e dolore; la comunità di Jonas ha rinunciato alla memoria per non soffrire più, e il Portatore di memorie si fa carico di tutto quel che la comunità ha dimenticato, dolore compreso. Quanto è pericoloso dimenticare, quanto è importante la memoria?
Credo che il migliore esempio di uso e abuso della memoria sia rappresentato da quelli che noi negli Stati Uniti chiamiamo “Negazionisti” ovvero coloro che sostengono che l’Olocausto non sia mai avvenuto. Il filosofo George Santayana disse una volta: “Il progresso, ben lungi dall’essere cambiamento, dipende dalla capacità di conservare la memoria. Quando il cambiamento diventa assoluto, non rimane niente e nessuno da migliorare e non viene stabilita alcuna indicazione per un possibile miglioramento. E quando l’esperienza non viene mantenuta, come accade fra selvaggi, l’infanzia è perpetua. Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”. Le persone nella comunità che descrivo in The Giver sono un esempio di quelli che Santayana chiamerebbe “eterni infanti”… una condizione molto pericolosa in cui ritrovarsi.
Piano piano Jonas arriva a capire che se non si sperimenta il dolore non è possibile sperimentare la vera felicità. Nella sua comunità, dove tutto è appiattito dall’Uniformità le persone percepiscono le cose in modo diverso, non provano vere emozioni, non vedono i colori, non sentono la musica; quando Jonas comincia a provare vere emozioni, più intense, inizia anche a vedere i colori. Come è nata questa idea?
Non faceva parte in realtà del plot originale. Fu solo rileggendo quello che scrivevo che mi resi conto di quanto fosse spenta, priva di colore, appunto, la società che stavo descrivendo, senza alcun tipo di arte, musica, letteratura o profondità di sentimenti. Per cui ritornai sui miei passi e riscrissi parte del romanzo per potervi incorporare quell’elemento, che da allora ha affascinato così tanti lettori.
La società tecnologicamente avanzata descritta in The Giver è tanto pacifica ed egualitaria, almeno in apparenza, quanto è invece ingiusta e violenta quella molto più primitiva descritta in La rivincita, il secondo libro della trilogia. Nonostante tutto ho avuto l’impressione che entrambe fossero le due facce della stessa medaglia: il rifiuto e la paura della diversità, delle differenze. Espresso solo con mezzi diversi: l’omologazione forzata di The Giver e l’ostracismo riservato a coloro che sono percepiti come “diversi” ne La rivincita…
In entrambi i casi vengono rappresentate delle dittature. Solo che una comunità è tranquilla e sottomessa perché le è stato dato un senso di sicurezza, mentre l’altra è spossata dalla miseria e dall’instabilità: due modi diversi, per chi comanda di sottomettere e controllare una popolazione. Per fare un paragone potremmo pensare, nel primo caso, all’ordinato e ben organizzato governo nazista, nel secondo caso ai talebani.
Fra i molti temi che affronti in La rivincita, ve ne è uno che forse è stato un po’ messo da parte: quello del rapporto fra gli artisti e il potere, che delle loro abilità vorrebbe servirsi spietatamente, per rafforzare l’autorità…
Si, lo scontro fra arte e potere è sempre stato un argomento controverso e dibattuto. Negli Stati Uniti abbiamo spesso assistito a minacce, da parte del governo, di ritirare le sovvenzioni destinate alle attività culturali… quando, forse le “arti” in questione non erano di gradimento. E in molti altri paesi abbiamo assisitito alla repressione e alla censura della parola scritta. Credo che la libertà dell’artista sia fondamentale, ed è quello che ho cercato di trasmettere in La rivincita.
Veniamo a Il messaggero, in cui alcuni dei protagonisti dei due libri precedenti hanno trovato rifugio in un villaggio formato da outsiders come loro, persone cacciate dalle proprie comunità perchè diverse. Il villaggio stavolta sembra davvero un luogo idilliaco in cui gli abitanti danno importanza a valori quali l’onestà, l’altruismo e l’accettazione delle differenze. Ma a un certo punto la gente comincia a scambiare i propri sentimenti e qualità con effimeri beni materiali al Mercato del Baratto. Un’altra idea interessante. Perchè la scelta del commercio come metafora?
Perché è esattamente il tipo di compromesso morale che facciamo ogni volta: vogliamo delle “cose” e spesso compromettiamo i nostri valori per averle. Il materialismo sembra sempre più diffuso fra i nostri ragazzi, quindi ho pensato che sarebbe stata una metafora interessante da usare. Così nel pacifico Villaggio de Il messaggero, l’egoismo si diffonde assieme all’ostilità verso “gli altri”, i nuovi arrivati che potrebbero calpestare l’avidità degli abitanti originari. È un riflesso della mia nazione, che venne creata da immigrati (i genitori del mio defunto marito erano ebrei russi; i miei nonni erano norvegesi). Adesso l’immigrazione è un argomento molto discusso a livello politico, con alcuni rappresentanti del partito conservatore che vorrebbero addirittura costruire un muro fra gli Stati Uniti e il Messico.
La trilogia di The Giver è diventata di recente una quadrilogia, con Son. Sei soddisfatta del risultato? Puoi anticiparci qualcosa?
Direi di sì. Con Son sento di aver reso giustizia a tutti i personaggi ai quali i lettori si sono affezionati. All’inizio mi sono concentrata su Gabe, il neonato salvato da Jonas in The Giver, che ora è un adolescente in cerca delle sue origini. E chiedendomi io stessa quali fossero le sue origini, ho creato una ragazza, Claire, che quattordici anni prima era stata selezionata come Partoriente e aveva quindi dato alla luce Gabe. In realtà questa è proprio la storia di Claire, la storia della sua disperata ricerca, durata anni, del figlio che le era stato portato via.
Mi sembra che l’idea alla base di tutta la serie sia l’importanza delle relazioni umane al di là delle differenze. In fondo la “gente” è un concetto abbastanza spaventoso, non così le “persone” prese una per una e nei loro rapporti con gli altri.
Credo che uno degli scopi più alti della letteratura in generale sia proprio il raccontare “l’altro”… il distinguere le “persone” dalla “gente”.
The Giver ha suscitato reazioni opposte negli Stati Uniti; in alcune scuole è stato inserito fra le letture consigliate, in altre addirittura bandito. Perchè secondo te questo è accaduto, e qual è la tua opinione riguardo al “book-burning”, la rimozione di libri considerati inadatti o immorali dalle biblioteche scolastiche? Tieni presente che in Italia questo è un fenomeno ancora poco noto e, per fortuna, marginale.
Agli studenti che durante gli incontri sollevano il problema faccio notare come nel mondo di The Giver non esista la letteratura, perché i libri sono stati rimossi o distrutti… probabilmente con le migliori intenzioni! “Non abbiamo più guerre. Non mettiamo a disagio le persone permettendo loro di leggerne sui libri”.
La censura è sempre una cosa molto pericolosa e la rimozione di certi libri dalle scuole e dalle librerie è sempre stata uno dei primi sintomi del totalitarismo.
Alla domanda “come si diventa scrittori?” molti autori rispondono spesso, a ragione “leggendo tanto” e so che tu non fai eccezione. Quali sono gli autori che hai amato di più da bambina? C’è un libro che hai letto quando eri ragazza e che ti ha fatto desiderare di diventare una scrittrice?
Per me fu cruciale la lettura de Il Cucciolo di Marjorie Kinnan Rawlings. Era considerato un libro per adulti ma mia madre me lo lesse quando avevo otto o nove anni. È una storia di formazione che parla dell’accettare le perdite insite nel dover crescere. Nessun “libro per ragazzi”, all’epoca, parlava con così tanta onestà di questo genere di cose.
In questo periodo la narrativa per ragazzi a tema distopico sta conoscendo un enorme successo. Molti autori si sono ispirati, direttamente o indirettamente a The Giver. Cosa ne pensi di questa tendenza?
Penso che “tendenza” sia la parola giusta. Qualche anno fa erano i vampiri. Ora ci sono le distopie. Molto presto ci sarà qualcos’altro. Ma credo che i romanzi distopici siano così popolari perché in questo momento è il nostro futuro ad essere completamente incerto. Ed è affascinante, e forse anche rassicurante, immaginare possibili futuri. E naturalmente fra i giovani lettori c’è la consapevolezza che saranno loro a plasmare il futuro.
L’intervista è apparsa sul numero 299 (gennaio-febbraio) di Andersen, leggi l’indice e scopri il resto del numero