La lezione di un vero intellettuale della scuola, capace di ascoltare, interpretare e rispettare la lingua dell’infanzia.
Ci sono parecchie angolature dalle quali si può guardare la figura di Mario Lodi, che ci ha lasciati a marzo dopo una lunga vita intensa e laboriosa. Si può parlare dell’autore di letteratura giovanile (e il pensiero va subito a Cipì, già un classico amato da generazioni); si può parlare del maestro innovatore nella scuola postbellica ancora fortemente impressa dall’impianto autoritario; si può parlare dell’attivista, fondatore assieme a pochi altri del Movimento di Cooperazione Educativa; oppure dell’analista di rottura con Il Paese sbagliato, il pamphlet cui attingevano gli insegnanti degli anni ‘70 infiammati dalla lettura parallela di Lettera ad una professoressa. E non sono affatto secondari neppure i suoi interventi giornalistici, sia quelli occasionali sui quotidiani che lo interpellavano per l’attualità, sia le collaborazioni più distese e continuative, come la rubrica mensile su “La Vita Scolastica” dalla quale ha continuato a osservare, ancorché anziano, le grandi trasformazioni sociali e culturali che vive la scuola contemporanea. Il profilo di Mario Lodi è molto sfaccettato perché egli è stato un vero intellettuale della scuola e, a dire il vero, non ne abbiamo avuti poi molti in Italia: certamente lo furono Rodari, Manzi, Danilo Dolci, Lorenzo Milani. Ma li possiamo contare sulla punta delle dita.
Se quindi scelgo di parlare soprattutto del “mestiere di maestro” è perché mi pare che lì stia il fortissimo collante che lega tutto. A ben guardare, anche la narrativa di Lodi è radicata al mestiere di insegnante: lo dichiara lui stesso in un’intervista che si può facilmente recuperare su Youtube, dove ricorda come i suoi libri più famosi siano nati dall’esperienza di classe: ancora oggi l’edizione del cinquantenario di Cipì rende omaggio in copertina a tale paternità plurale, l’autore è infatti “Mario Lodi e i suoi ragazzi”. Certo, era un uomo generoso il maestro di Piadena, che ha voluto anche dopo mezzo secolo ribadire un tale omaggio alla creatività infantile.
Da tutto ciò, peraltro, non esce affatto sminuita la limpidezza di scrittura che Lodi sempre ha profuso nelle tante e varie prove letterarie e saggistiche: è ben noto, infatti, che la creatività di una classe si sprigiona e trova modo di esprimersi solo grazie a un buon maestro, capace di costruire sintonia emotiva e di predisporre le occasioni culturali che generano conoscenza. E Lodi, inoltre, conservava “l’orecchio acerbo” di rodariana memoria, sapeva ascoltare la lingua dell’infanzia, sapeva interpretarla e rispettarla.
Ecco, il tema del rispetto gli è stato sempre molto caro: in un capitolo di C’è speranza se questo accade al Vho – il suo libro più sofferto e più importante, un vero diario che registra i successi e le delusioni quotidiane di un maestro molto solo degli anni ‘50 – Lodi racconta come i suoi bambini, i “figli della terra” che ancora confondono i tuoni con i bombardamenti, si avvicinino alla poesia. A quei tempi l’approccio alla poesia avveniva in tutte le classi allo stesso modo: su versi codificati, preferibilmente eroici, da ripetere a memoria. Poco importava il livello di autentica comprensione cui i piccoli della scuola elementare potevano aspirare: si recitavano rime che semplicemente “dovevano essere imparate”, come l’inno nazionale (vent’anni dopo, in pieno clima sessantottino, le più note verranno raccolte in un’ antologia, L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, corredata da una nota un po’ caustica e un po’ nostalgica di Giancarlo Vigorelli).
I ragazzi di Mario Lodi, cresciuti nel rispetto reciproco e per il loro insegnante, si cimentano con la lingua, la trattano come un giocattolo e inventano semplici versi. Non sono certo grandi liriche, ma l’approccio alla poesia è completamente ribaltato rispetto alla scuola tradizionale, è emotivo e comunicativo, non mnemonico e celebrativo. Ecco quanto racconta lo stesso Lodi nel suo diario, destinato a divenire poi libro di grande successo:
” Mi ha detto che si chiama Tiziana e mi ha recitato una poesia studiata a scuola: – Secondo te, una poesia è come un pensierino?
Tiziana: – No
Io: -Una bambina potrebbe fare una poesia? Tu, ad esempio, non hai mai avuto voglia di fare una poesia? Una poesia anche cortissima, di poche parole, ma bella, così bella che gli altri, a sentirla, ti battano le mani e dicano: “com’è bella questa poesia!”
Tiziana (non ascolta le ultime parole e dice): – Al coniglietto. (China la testa e arrossisce)
Io: – Hai un coniglietto, tu? Di stoffa…oppure vivo?
Tiziana: – Ne ho dieci
La bambina si apparta per scrivere “e poco dopo Tiziana è venuta nella mia classe a portarmi la sua poesia scritta. L’ha letta alla mia scolaresca, la quale all’unanimità l’ha passata alla tipografia”.
Il mio coniglietto
Coniglietto mi piaci
perché sei bianco
e sulla schiena
hai delle macchie nere.
Io mi chiamo Tiziana
e ti accarezzo
Il rispetto di Lodi per le produzioni infantili era davvero infinito e non di rado sfociava in sincera ammirazione. Era orgogliosissimo per la sua collezione di disegni che periodicamente esponeva nella grande cascina ribattezzata la “Casa del gioco e delle arti”, ed è stato per me un vero privilegio averlo avuto come guida in tale straordinaria galleria quando, insieme, lavoravamo al saggio Mario Lodi maestro. “L’arte infantile esiste” mi ripeteva e si soffermava su un dipinto steso su carta da pacchi con tempere da poche lire, ne raccontava la genesi e la tecnica con la medesima accuratezza e passione di un critico d’arte davanti a un capolavoro celebrato.
Rispetto, si diceva: per questo era contento se lo si chiamava “il maestro della Costituzione”, e invitava tutti a riconoscere la nostra Carta come vademecum civile e soprattutto ad attuarla senza le vuote parole della retorica, ma nella pratica quotidiana, nel rispetto delle cose e delle persone.
Da Piadena, dove era nato, non si è mai trasferito, non ha inseguito i riflettori mediatici. Partecipava volentieri a incontri pubblici, ma tornava poi sempre alla sua campagna; là lo raggiungevano sovente gli amici, gli estimatori, e generazioni di insegnanti. Da Piadena, lo possiamo ben dire in senso reale e in senso figurato, è passata la migliore scuola italiana. Anzi, se oggi c’è un motivo per rimarcare il piccolo borgo nella Padana tra Cremona e Mantova, questo motivo sta proprio in Mario Lodi.
Accade una cosa simile al paesino di Barbiana, che esiste nella memoria collettiva solo perché ci confinarono don Milani. E alla madre, che in una lettera si rammaricava per l’oscurità del luogo destinato a quel suo brillantissimo figlio, don Lorenzo rispose che il valore di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si svolge.
Appunto.
[da ANDERSEN 312, maggio 2014. Scopri il resto del numero qui]