Questo articolo è apparso su Andersen n.351. Abbonati ora per sostenere la rivista.
L’uscita del nuovo film d’animazione di Wes Anderson, girato completamente in stop motion, è l’occasione per ripercorrerne le prospettive d’infanzia, tra adulti inesistenti e bambini tenaci.
Giappone, 2037. Una contagiosissima influenza canina sta mietendo vittime in tutta la città, e il sospetto che la malattia possa essere trasmessa anche agli uomini divide l’opinione pubblica: c’è chi – pochi attivisti “pro cani” – vuole trovare una cura e chi – i fedeli della dittatura al potere – pensa che l’unica soluzione possibile sia lo sterminio o, quantomeno, la cacciata di tutti gli esemplari, infetti o meno.
A scopo preventivo, ma soprattutto propagandistico, il sindaco della distopica città di Megasaki firma un decreto che destìna l’enorme discarica a cielo aperto a pochi chilometri dalla città a luogo d’esilio per tutti i cani. Il primo ad esservi spedito è proprio il bastardino del sindaco, o meglio, di suo nipote Atari Kobayashi. Ovviamente senza il consenso del bambino.
È il primo atto di una deportazione di massa che vede arrivare sull’isola randagi, ma anche vecchie glorie degli spot televisivi, mascotte spor- tive, pedigree stellati; tra loro anche Chief, Rex, King, Boss, Duke, cinque cani (“maschi alfa”) presto poco tolleranti di questa vita fatta di risse, spazzatura e cibo andato a male cui sono costretti dal decreto. Tutto però è destinato a cambiare con l’arrivo di Atari, giunto sull’isola con l’obiettivo di ritrovare il suo cane (“guardia del corpo, non da compagnia”) a qualsiasi costo. Inizia così Isle of dogs (L’isola dei cani, 2018), ultimo lungometraggio di Wes Anderson, scritto insieme a Jason Schwartzman e Roman Coppola, che si è già aggiudicato l’Orso d’argento a Berlino – oltre ad essere stato scelto come film d’apertura della kermesse – e che arriverà sugli schermi italiani a maggio, distribuito dalla 20th Century Fox. Un nuovo film d’animazione, girato interamente in stop motion senza l’ausilio della computer grafica: secondo esperimento dopo Fantastic Mr. Fox (2009), il film basato sul romanzo breve di Roald Dahl, Furbo il Signor volpe, di cui il regista è grande estimatore.
Nel caso de L’isola dei cani i riferimenti letterari non sono così espliciti, ma certo le tracce dell’immaginario di cui Anderson si nutre sono marcate ed evidenti e, dopotutto, lo sguardo lucido sul mondo degli adulti e un pizzico di cinismo dahliano non mancano neppure qui. Certo è che i modelli a cui il regista ha affermato di essersi ispirato nella conferenza stampa di Berlino non sono da meno: c’è Akira Kurosawa in primis – di cui riprende sguardi e inquadrature – e poi Hayao Miyazaki, maestro di ambientazioni, tra musiche e silenzi.
Un omaggio al cinema giapponese, insomma, che diventa anche un omaggio alla lingua, dal momento che, come recitano i titoli iniziali, solo “i latrati dei cani sono stati resi in inglese” e la lingua degli umani, il giapponese, è sporadicamente tradotta (o dalla traduttice simultanea del sindaco o dalla studentessa di scambio Tracy Walker) mentre tutto il resto rimane in lingua originale, incomprensibile ai più, esattamente come accade ai cinque cani protagonisti.
Doppiato splendidamente da un cast di grandi nomi del cinema – Bryan Cranston, Edward Norton, Bill Murray, Jeff Goldblum, Bob Balaban, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, Frances McDormand, Greta Gerwig – il film di Anderson porta sullo schermo tante delle suggestioni narrative che siamo soliti trovare nella letteratura per ragazzi: c’è un ragazzino tenace e determinato, privo di riferimenti adulti (se non di dubbia moralità); c’è l’amicizia con Spots, cane fedele oltremisura; c’è il netto contrasto tra il mondo dei bambini, fatto di una coerenza quasi incorruttibile, e quello degli adulti, piegato dai e ai giochi di potere.
Una prospettiva d’infanzia – abbiamo chiuso il numero di Andersen 350 parlando proprio di questo – che non è nuova alla poetica del regista, che già ne I Tenenbaum (2001), ma soprattutto in Moonrise Kingdom (2012), ritrae un’età malinconica, sì, in cui si è capaci però, al contrario dei “grandi”, di prendere decisioni col cuore e combattere per le proprie scelte.
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Nel film del 2001 i bambini sono il cuore della famiglia Tenenbaum: piccoli geni, enfants prodiges del tennis, del teatro e della finanza, i tre fratelli sono costantemente sotto pressione e allo stesso tempo dimenticati dai genitori. Maturi fin da piccoli, finiscono per non crescere mai del tutto, in una spirale di errori che il regista racconta e offre all’interpretazione degli spettatori. Diverso, e certo più a misura di bambino, il film del 2012, dove Sam e Suzy, preadolescenti innamorati, fuggono, uno dal campo scout, l’altra da casa, in cerca di un destino condiviso. È una fuga rocambolesca e surreale, anche perché tali sono gli adulti che li inseguono: un capo scout completamente preso dal suo ruolo, una madre che comunica col marito e i figli attraverso un megafono, un padre assolutamente inconsistente. Adulti stralunati, egoisti ed egocentrici, che parlano molto, troppo, ma che non riescono ad ascoltare; i riferimenti in letteratura si sprecano: da Roald Dahl, ovviamente, a Saki, al Salinger di Franny e Zooey, per citarne alcuni.
Quella ritratta da Wes Anderson è un’infanzia che cresce da sola, che non vive sotto una campana di vetro imposta da genitori iperprotettivi; forse per questo il regista sente la necessità di proiettarne le imprese in un tempo diverso da quello contemporaneo: così, dagli anni Settanta e Sessanta dei Tenenbaum e di Moonrise Kingdom, si passa all’Isola dei cani che racconta di un futuro non troppo lontano (dominato, però, da una tecnologia un po’ retrò).
Anche Atari, come Sam, è un orfano alle prese con una famiglia in cui latita l’amore; per questo stringe un rapporto così stretto con Spots, che, pur non essendo un cane da compagnia, manifesta subito attacamento al bambino.
La vicenda segue le tappe classiche della ricerca, il superamento degli ostacoli, l’alleanza con nuov i amici, lo svelamento di un colpo di scena inaspettato. E anche qui la letteratura torna potente, facendoci pensare a storie come quella raccontata da Robert Westall ne La grande avventura (Piemme), dove il giovane protagonista, Harry, scampa ai bombardamenti e si mette in cammino accompagnato da un unico alleato, Don, un cane lupo con cui condivide la ricerca di sé e il medesimo destino solitario. D’altronde la narrazione e il potere delle storie sono elementi fondanti per il regista texano: in quasi tutti i sui film, infatti, compaiono copertine di libri immaginari scritti o letti dai protagonisti e, oltre a questo, molte delle sue storie sono raccontate “a voce alta” da un narratore, che, insieme ad un gusto estetico portato al paradosso, accentuano la sensazione, per lo spettatore, di trovarsi tra le pagine di un libro.
È quel che accade anche in questo suo ultimo lavoro, dove la capacità e l’esigenza di raccontare una storia coinvolgente e attuale – molti i temi “caldi”, tra politica, ambientalismo e emarginazione – si affianca alla cura quasi maniacale per i dettagli (gli sguardi, i movimenti, i passaggi di scena) e ad una comicità arguta ed elegante, talvolta cinica, in una narrazione assolutamente per tutti.